“White Bird in a Blizzard” di Gregg Araki

White Bird in a Blizzard è un film gelido (come suggerisce il titolo, letteralmente “Uccello bianco nella bufera”): al freddo rimandano non solo i colori freddi e alcune ambientazioni, ma anche continui riferimenti nei dialoghi (“Questo paese sembra congelato nel tempo”).

Agghiacciante è anche la trama: nel 1988 Kat Connors (Shailene Woodley) è un’adolescente di 17 anni che, assieme a suo padre Brock (Christopher Meloni), si ritrova a fare i conti con l’improvvisa sparizione della madre Eve (Eva Green). Dal momento che non ci sono né indizi né prove a favore di un potenziale suicidio o omicidio, le vite dei due vanno avanti (quasi) come se nulla fosse. Kat, infatti, sembra quasi sollevata da quest’assenza, finalmente liberata dall’ingombrante presenza di una madre depressa, spesso ubriaca e aggressiva, quasi gelosa della giovinezza della figlia. Anche Brock, nei cui confronti la madre da molti anni non mostrava che disprezzo, si arrende abbastanza velocemente alla nuova piega che ha preso la sua vita, essendo di natura un uomo remissivo e passivo.

L’unico segnale che indica che in Kat in realtà qualcosa si è spezzato sono i sogni che cominciano a disturbarla: si ritrova in uno spazio bianco, neutro, dove imperversa perennemente una bufera e dove avverte la presenza di sua madre. Nel frattempo Kat cresce, da goffa punk diventa una bellissima giovane donna sicura di sé e parte per il College. Di ritorno nel suo paese natale per qualche giorno, però, i fantasmi del passato riemergono e le certezze che pensava di aver acquisito cominciano a vacillare.

L’ultima fatica di Gregg Araki (esploso con Doom Generation) non è di certo brillante (anche se il finale può riservare qualche sorpresa), e non c’è neanche un personaggio che sfugga dalla gabbia degli stereotipi. Ben presto, però, ci si accorge che la continua degradazione dei personaggi a tipi universali (la bella, lo scemo, la femme fatale, l’amica simpatica e cicciona) è un gioco voluto (nella scena in cui Kat parla con la psicologa c’è un chiaro riferimento al meta-cinema), anche se non si capisce quale voglia essere il risultato finale.

Il personaggio che dovrebbe essere il più enigmatico (almeno secondo le regole del genere thriller) è quello della persona scomparsa, ovvero la madre, che di certo non può non abbagliare grazie al magnetismo della sua interprete, ma Gregg Araki riduce notevolmente il suo carisma: che cos’ha di diverso Eve Connors da tutte le altre casalinghe disperate cinematografiche e non? Niente. Non c’è nulla da rimproverare alla prova attoriale di Eva Green, anche se ci si comincia a domandare perché questa splendida attrice si ostini a voler vestire sempre gli stessi, usurati panni della bella impossibile, spesso pure maniaco-depressiva dagli occhi perennemente spiritati.

Scelte lavorative di Eva Green a parte, non si capisce davvero dove voglia andare a parare Araki con questo lungometraggio. Voleva fare un thriller? White Bird in a Blizzard sarebbe un rthriller atipico dal momento che per la maggior parte del tempo il film non si occupa della sparizione di Eve, ma della vita di Kat. Voleva fare un dramma? Di sicuro gli elementi ci sono, ma il tono e lo stile del racconto sembrano non coincidere neanche in questo caso con quanto ci si aspetterebbe.

Forse è meglio considerare White Bird in a Blizzard come un ibrido che ha sicuramente alte aspirazioni, non vuole assomigliare a nient’altro e vuole trovare una propria strada sulla via dell’originalità. Onorevoli le intenzioni, meno ammirevole il risultato.

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