“High Rise” di Ben Wheatley

Il film è l’adattamento cinematografico del romanzo Il condominio di James Graham Ballard. Il premio Oscar Jeremy Thomas era da anni interessato alla realizzazione di questo film, è riuscito però a produrlo solo nel 2014.

Presentato in anteprima al Toronto International Film Festival, poi in concorso al Festival di San Sebastián, High Rise arriva al TFF e viene proposto nella sezione Festa Mobile, dedicata alle opere fuori concorso e inedite in Italia, che esprimono il meglio della produzione cinematografia internazionale.

Il film è ricco di soluzioni visive piuttosto interessanti (quali le verticalità opprimenti del grattacielo in cui si articola la vicenda, che sono ben rese da inquadrature oblique, oppure dai movimenti del protagonista in rapporto agli specchi sulle pareti dell’ascensore, ecc.), ma non viene superata la difficoltà di rendere cinematograficamente atmosfere e situazioni di un romanzo complesso come quello di Ballard. Occorreva dare forma alla metafora di quella società moderna in cui oggi siamo tutti vittime e carnefici.

Il microcosmo rappresentato è stanziato in un grattacielo che offre tutto quello di cui c’è bisogno. La maggior parte dei personaggi, infatti, non esce mai da esso. Solo il protagonista, il neurochirurgo Robert Laing, lo lascia temporaneamente per recarsi al lavoro. Alla fine però, lo vedremo aprire uno studio proprio all’interno del grattacielo stesso. Gli occupanti degli appartamenti vengono definiti attraverso il solo numero del loro alloggio: una sorta di spersonalizzazione quasi maniacale.

Ma facciamo un passo indietro e torniamo alla trama. Tutto ha inizio quando il neurochirurgo si trasferisce in un appartamento di lusso proprio in quel grattacielo. In poco tempo realizza che ai piani bassi stanno le classi sociali più povere e ai piani alti quelle più abbienti. Visita persino l’attico extra lusso, dove è allestito un lussureggiante Eden in cui risiede l’architetto. Ma il neurochirurgo sembra apatico e solo interessato a conquistare donne.

Durante un blackout scoppia il caos e tutti quanti iniziano a capire che più si va in alto più si sta bene. Questa ascesa “fisica” corrisponde ad una trasformazione “morale”. Tutti diventano avidi di ricchezza e si fanno guerra l’un l’altro. A capeggiare la rivolta c’è il documentarista Richard Wilder che vuole uccidere l’architetto. Uno dei principali personaggi femminili dice al marito che si sente soffocare al buio nei piani bassi e vuole la luce dei piani alti.  La verità è che dove c’è capitalismo non ci sarà mai vera libertà.

Il mood del film è gravato da una sceneggiatura che pare, a tratti, strabordante di accadimenti e dinamiche. I personaggi del film si prendono troppo sul serio e manca ogni sorta di possibile momentanea evasione che possa allentare la claustrofobia generale. Quasi tutto il film, difatti, è girato in interni.

Le premesse narrative in questo film sono tante, ma poi gli sviluppi percorrono binari un po’ troppo ciechi. Da rivedere e da rimeditare.

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