“Rak ti khon kaen” (“Cemetery of Splendour”) di Apichatpong Weerasethakul

– Mi hanno detto che ha un’amante. Riesci a vedere dove la tiene nascosta?
– Riesco a vedere solo la sua vita passata.
– Focalizzati sul presente, per favore. Voglio saperlo.

Una moglie tradita siede al capezzale del marito in coma in compagnia di una giovane sensitiva la quale, come lo zio Boonmee, si ricorda le vite precedenti. Ci troviamo nel piccolo ospedale di un villaggio dell’entroterra thailandese. Lo stesso villaggio in cui è cresciuto il regista Apichatpong Weerasethakul (la madre era medico in una struttura molto simile) e in cui ritorna dopo aver vissuto e lavorato negli Stati Uniti.

Il villaggio è in fase di cambiamento, dal momento che la sequenza d’apertura mostra una scavatrice al lavoro nel campo adiacente l’ospedale, incurante del bambini che continuano a giocare a palla tra le buche. Presto veniamo a sapere che l’ospedale dovrà essere spostato e che che i pazienti non se ne vogliono andare. Incontriamo poi la protagonista, Jen: donna matura, con una gamba più corta dell’altra e un marito ex soldato americano.

Vediamo molti militari filippini addormentati nei letti; tra di loroi c’è Itt, giovane di cui Jen si prende cura da volontaria e che a volte si risveglia per scambiare con lei lunghe conversazioni, per poi ricadere in un sonno ristoratore. O almeno così dovrebbe essere. La realtà – Nabokov ha, a suo tempo, suggerito di virgolettare sempre questa parola – è ben diversa: nel luogo in cui ora sorge l’ospedale un tempo esisteva un palazzo e in seguito un cimitero di sovrani. Questi, perciò, si starebbero servendo dell’energia dei soldati dormienti per proseguire le loro battaglie nell’oltretomba. Jen (e, in qualche modo, noi con lei) “vede” questo palazzo grazie all’aiuto della stessa sensitiva. Il film di Weerasethakul trova nel Mito la sorgente della memoria personale e nazionale.

L’autore non ha bisogno di effetti speciali, ricostruzioni o flashback. Il passato è una costante presenza nel suo cinema, uno spettro che infesta le sue immagini vive e illuminate. Sono istanti cinematografici lunghi un’eternità, spesso considerati ridicoli dai critici. Ma ne comprendiamo il valore. Quando sono iniziati i titoli di coda, quasi ci saremmo aspettati che la pellicola ricominciasse da capo. Ma non è accaduto.

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