dust la vita che vorrei di gabriele falsetta

Cinque cortometraggi – TFF 2016

Quando il fato non si accontenta

Il filo che lega i cinque lavori artistici di Spazio Piemonte 3, potrebbe essere quello sottile ed ineluttabile (ma non troppo) del fato.

LA NOTTE DI LORENZO di Claudio Flamia
“La notte di Lorenzo” di Claudio Flamia

È il fato che fa fermare il trattore di Lorenzo in aperta campagna e che gli fa trascorrere una notte intera – La notte di Lorenzo – nei campi per difenderlo dai furti di macchine agricole in aumento nella zona.  Il corto di Claudio Flamia, nato insieme a L’Aura , la scuola di cinema di Ostana, è uno spaccato cinematografico di vita agricola sui Monti Dauni, nel Foggiano, fatto di pochissimi dialoghi in dialetto  e di una cascata di immagini suggestive. L’artificiale si confronta e si confonde con la natura circostante, sullo schermo e dietro la macchina da presa, quando  il montaggio rallenta o amplifica il movimento delle pale eoliche o quando Antonio brucia le sterpaglie e, in una lunghissima dissolvenza incrociata, una donna balla furiosamente insieme alle fiamme, creando un rito di fertilità quasi esotico.

il nemico è là fuori film
“Il nemico è là fuori” di Elis Karakaci e Alessandro Genitori

Sempre il destino gioca un brutto scherzo a quattro ragazzi che si risvegliano improvvisamente in una casa abbandonata in un bosco, senza alcun ricordo: la casa è disseminata di armi e una voce registrata delirante li minaccia. Il nemico è là fuori è il corto presentato da un ex damsiano, Elis Karakaci, e da Alessandro Genitori. Lo spettatore è da subito catapultato in un gioco della morte dal ritmo sostenuto, ben organizzato dal punto di vista registico. Sballottati dalla soggettiva del killer alle immagini concitate dei ragazzi impauriti, gli spettatori in sala non hanno tempo di pensare né di capire, ma la sceneggiatura riesce comunque a evidenziare le diverse psicologie dei personaggi… salvo poi riconfondere volutamente le idee nel finale. Usciti dal bosco, una macchina sulla strada non rappresenta la salvezza, anzi: la linea di demarcazione tra vittime e carnefici è labile e sconnessa fino alla fine, perfino dopo i titoli di coda.

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“Undequinquaginta” di Marco Marcigliano

Toni più leggeri e godibili per Undequinquaginta. Un cameriere senza nome e senza battute viene licenziato perché troppo serio con i clienti, con una spettanza di cinquanta euro. Al bar consuma un cappuccino in compagnia di un logorroico barzellettiere e trova un annuncio di lavoro, che però richiede una quota associativa, manco a dirlo, di cinquanta euro. Nel suo viaggio per recuperare l’euro mancante, il destino gli fa tutti gli sgambetti possibili, ma a lui scappa addirittura una risata. Buonissima prova cinematografica di Marco Marcigliano, che figura da solo alle voci di regia, sceneggiatura, suono e montaggio e che merita davvero un applauso.

Complesso e interessante il lavoro di Angelo Licata, Mala vita. Il protagonista è Antonio (Luca Argentero), un galeotto dalla parlantina svelta che in galera ormai conosce tutti e riesce farsi assegnare la sua “solita” cella: “è casa mia”. Questa volta, però, ad aspettarlo c’è un cattivissimo Rocco (Montanari), un boss della camorra che tiene in ostaggio i compagni di cella con intimidazioni e violenze. Il film è tratto da Pure in galera ha da passà ‘a nuttata,  il romanzo di Giuseppe Rampello vincitore nel 2013 del Premio Letterario Goliarda Sapienza, volto a valorizzare la creatività dei detenuti. Mala vita fa anche parte di un progetto di Rai Fiction che ha l’obiettivo di finanziare storie di carattere sociale e di raccontare la dura realtà del carcere.  La durezza della condizione di vita dei detenuti è evidente durante tutti i 25 minuti, ma mitigata da una leggerezza espressiva che sottolinea la volontà di ritrovare umanità e speranza. Grazie alla sua abilità, Antonio riesce nel finale a ribaltare letteralmente le carte del fato e a godere di nuovo la tranquillità del suo nido.

Il lavoro più riuscito e interessante del gruppo coinvolge non uno, ma otto destini diversi, quelli di Speranza, Remo, Giovanni, Antonio, Virginio, Paolo, Gilberto e Renato, disabili fisici e psichici che vivono insieme al Cottolengo da più di cinquant’anni. Opera in bilico fra il teatro e il documentario, Dust – La vita che vorrei di Gabriele Falsetta dona la possibilità di riallacciare le vite interrotte di questi personaggi in cerca di autore. Un’autrice, a dire la verità , l’hanno trovata nel 2011, quando  Barbara Altissimo iniziò con loro un progetto poi portato sul palcoscenico dopo due anni di lavoro teatrale. Lo scopo è quello di creare “un’espressione artistica del tutto nuova ed originale, rivelando le potenzialità insite in ogni individuo anche (e sopratutto) nel caso di handicap mentali o fisici”. La polvere che si è depositata nelle loro memorie e sulle loro esistenze viene soffiata via da una regia leggera e puntualissima, che che lega i racconti dei protagonisti in primo piano o mezzo busto a performances, canzoni, gesti e parole in campo lungo e lunghissimo, srotolando sullo schermo un’umanità vitale e malinconica.

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