“Suburra” di Stefano Sollima – 1

Cinclinazione alla violenza e alla rabbia di una generazione senza via di scampo

Quello che viene ritratto in Suburra, l’ultimo film di Stefano Sollima, è un quadro complesso. La sua protagonista è Roma, la città eterna, simbolo di un’Italia che si dimena affannosamente in un presente più che mai contraddittorio. Quello che il regista romano porta avanti ormai da quasi dieci anni è un discorso sulla violenza, le sue forme e le sue modalità, declinate in un contesto che è quello del film di genere. Il modus operandi è ormai consolidato, il soggetto viene prelevato da una fonte letteraria (Cataldo, Bonini, Saviano) per poi essere rielaborato attraverso il linguaggio cinematografico.

Sette giorni all’apocalisse I soggetti in gioco in Suburra sono molteplici e differenziati. L’onorevole Malgradi (Pierfrancesco Favino) a causa di un incidente che lo vede responsabile della morte di una prostituta minorenne, si ritroverà invischiato in un intricato piano criminale atto alla progettazione di un complesso di riqualificazione urbana a Ostia. Manfredi (Adamo Dionisi), lo Zingaro, è il rappresentante di un clan in forte espansione. Sebastiano (Elio Germano), organizzatore di eventi nella Roma che conta, è chiamato a fare da intermediario fra i diversi assetti della criminalità romana. Numero 8 (Alessandro Borghi) è erede di una Ostia che si prefigura come fonte di imponenti ricchezze. Samurai (Claudio Amendola) è garante della buona riuscita del progetto multimilionario. E ancora un’infinità di personaggi-satelliti ruotano attorno alle vicende di una Roma che è cornice di una storia di peccatori, una Roma che nelle sue sequenze iniziali si mostra in due dimensioni specifiche, quella dei palazzi del potere politico (la Camera dei Deputati) e del potere religioso (il Vaticano). Quello che si avverte, limpidamente, è una sensazione di precarietà che si esplicita nel mostrare la Curia prossima al caos a causa delle dimissioni del Papa ormai eminenti e il Governo dello Stato ormai prossimo allo scioglimento. I “burattini” che Sollima manipola sono uomini che vagano all’interno di una città che ha perso i propri punti di riferimento, esseri umani che guardano al passato cercando di annaspare nel presente, sognando un futuro quanto mai incerto. Orfani che sopravvivono, che pagano i misfatti dei propri genitori, rispondendo a quell’esigenza di autoaffermazione così primitiva, che nel suo attuarsi rivela individui privi di connotati umani, nei quali l’etica e la moralità sono solo sovrastrutture ideologiche insignificanti e improduttive. Suburra nella sua struttura articolata rappresenta una realtà composta da piccoli ecosistemi interconnessi fra loro, piccoli universi costituiti da usi e linguaggi ben delineati. Una natura criptica, quasi impossibile da codificare. Che cosa vogliono queste persone? Che cosa cercano? Sollima non fornisce spiegazioni, si limita a raccontare.

Una Roma nella quale piove sempre. In Suburra le contaminazioni di genere sono diverse. Vi sono elementi noir, gangster, architetture tipiche del thriller e così via. A essersi sviluppato nella dinamica di genere però, non è solo l’aspetto tematico, ma anche quello visivo, sonoro e produttivo. Roma nelle sue ambientazioni piovose, nella sua vita notturna, nelle sue luci a led, risplende nella sua fotogenia. Il commento sonoro gestito attraverso l’uso di sintetizzatori elettronici e uno studiato uso del sound design immerge lo spettatore nel tessuto narrativo del film. Suburra è anche un progetto produttivo che nella continuità ha la sua maggior autorevolezza: verrà ulteriormente sviluppato in un serie distribuita su Netflix. A sorprendere per davvero è come venga sviluppata la conflittualità in Suburra. Sembra di essere costantemente messi davanti a un qualcosa che sia in procinto di esplodere, a situazioni drammatiche che non possono che peggiorare e portare a conseguenze ancora più atroci. Vi è un gioco che continuamente si articola nella distensione e contrazione di elementi conflittuali. Un gioco al “rattoppo”, al cercare di dominare un qualcosa che sotto controllo non è e non lo sarà mai, che vede nella maschera di Samurai l’esponente più rappresentativo. La trama è basata su una dinamica di alleanze dove l’infedeltà è l’elemento costitutivo. Il tutto è rappresentato attraverso uno sguardo autoriale amaro, cinico.

La politica del mascherare. Suburra nel raccontare i suoi protagonisti trasforma questi in figure archetipiche. La sua brutalità consiste nel voler e non voler avere un riscontro con il mondo reale. Sollima utilizza un sistema di suggestioni e provocazioni in parte velate che evidenziano il nesso che vi è fra la materia narrativa e quella della più calda attualità, ma allo stesso tempo è ferma la volontà di allontanarsi da una forma di correlazione con il vissuto quotidiano. Questo lo si può evincere da un registro espressivo che ha nella stilizzazione “mitica – cartoonesca” dei suoi personaggi una delle caratteristiche più interessanti. Il grande 8 tatuato sulla nuca di Alessandro Borghi, la trasfigurazione fisica creata sulla silhouette di Greta Scarano, l’impermeabile di Claudio Amendola che a tratti può essere scambiato per un mantello, la natura selvaggia dello Zingaro, la malleabilità psicologica e corporale di Sebastiano sono elementi che manifestano la ferma decisione di intraprendere un percorso che non vuole creare delle ripercussioni nette nel nostro “reale”, bensì vuole vivere in una dimensione narrativa autosufficiente. D’altronde non ci sono nomi effettivi, solo identità fittizie, soprannomi che sottintendono qualcosa che forse è ancora da scoprire, forse nella sua versione seriale o forse chissà in qualche nuova declinazione mediale dell’universo espandibile.

Alessandro Spina,  studente del Corso di Critica cinematografica (DAMS, a.a. 2016-2017)

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