“Je ne me souviens de rien” di Diane Sara Bouzgarrou

Quando nel dicembre del 2010 in Tunisia esplode la Primavera Araba, Diane è entusiasta. Le proteste di piazza, le urla, il tumulto, l’ira del popolo; pura energia per la giovane regista che, videocamera alla mano, si aggira per casa, esulta, festeggia, invoca libertà e rivoluzione. Con lei c’è suo padre, il signor Bouzgarrou, che però davanti all’obiettivo pare più freddo, meno coinvolto. Eppure è lui il vero tunisino, perché Diane è nata e cresciuta in Francia.

“Non ti sembra un po’ esagerata tutta questa eccitazione, Diane?” sembra dire in un passaggio lo sguardo inquieto di sua madre. “Voglio richiedere il passaporto tunisino” ribatte la figlia, “bipolare, bisessuale, da ora sarò anche binazionale”.

Già dai primi minuti Je ne me souviens de rien si dimostra un film intenso, nudo, impregnato di vita vera. Non ci sono finzioni, non esistono le simbologie e gli stilemi narrativi tipici. Al centro ci sono soltanto Diane Bouzgarrou e il suo disturbo bipolare di personalità, nient’altro. L’insorgere e lo svilupparsi della malattia, la fragilità, i violenti sbalzi di umore, l’insonnia, il progetti di suicidio, l’esibizionismo. La videocamera – autentico prolungamento fisico dell’autrice – cattura ogni aspetto della patologia, impressionando i momenti di vita con un’ insistenza eccessiva, quasi morbosa, che ribalta la prospettiva canonica della narrazione cinematografica.

Di solito fare cinema vuol dire selezionare e rappresentare la realtà, generare nuovi significati a partire da una dimensione percepita come reale, solida, più o meno monolitica. Nel lavoro di Diane, invece, il processo è inverso, giacché accendere la camera e riprendere costituisce piuttosto l’unico modo per immortalare il mondo, per imprigionare il flusso della vita in una forma stabile, precisa, dai contorni netti e inalterati.

Con l’aggravarsi del disturbo alle crisi di identità si aggiungono infatti gli accessi di amnesia, che minacciano la memoria di Diane al punto da rendere necessario il ricovero. Anni dopo, all’uscita dalla clinica, il lungo percorso di guarigione passa proprio dalla sala di montaggio, dove l’enorme mole di materiale raccolto viene revisionata, riscoperto e assemblato in una narrazione compiuta. Da frammentata ed ellittica, la storia di Diane ritorna quindi ad essere un racconto, in cui i fotogrammi di memoria riacquistano unità e coerenza linguistica.

Found footage movie, documentario autobiografico, reportage clinico; Je ne me souviens de rien è molto di più. È un viaggio ardito nel non-essere, un’esplorazione coraggiosa del vuoto esistenziale di ognuno di noi.

 

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