“My War Is Not Over” di Bruno Bigoni

Mercoledì 29 novembre presso l’Auditorium Quazza di Palazzo Nuovo si è svolta – alla presenza di Harry Shindler, Marco Patucchi, del regista Bruno Bigoni e del professore Franco Prono – la proiezione speciale organizzata dal Dams del bel documentario My War Is Not Over, fuori concorso nella sezione Festa Mobile.

My War Is Not Over è tratto dall’omonimo libro scritto dal giornalista Marco Patucchi e racconta la storia di Harry Shindler, sodato inglese dei Sherwood Foresters che nel 1944, a poco più di vent’anni, sbarcò ad Anzio con le Forze Alleate e combatté per liberare l’Italia occupata dal nazifascismo. Oggi Harry Shindler ha compiuto 96 anni e già progetta la sua festa di compleanno per il raggiungimento del secolo d’età, vive a San Benedetto del Tronto ed è Member of the British Empire, titolo conferitogli dalla Regina Elisabetta.

In quella guerra è diventato adulto e della sua vita ha fatto una vera e propria vocazione: diventare un cacciatore di memoria, come spesso lo definiscono. Harry Shindler ha capito una cosa fondamentale, ovvero che la guerra per molti dei parenti dei soldati che vi hanno combattuto non è mai finita. Madri, mogli, figli, fratelli che non hanno mai saputo dove sono morti i propri cari e dove sono stati sepolti e che per questo non possono trovare pace. Il signor Shindler, quindi, negli anni ha cominciato ad affrontare e risolvere numerosissimi casi, potendo finalmente dire a quelle famiglie e a quei soldatila tua guerra è finita.

L’idea del film nasce per Bruno Bigoni in riferimento ai cimiteri militari presenti in Italia, dove riposano soldati caduti, che in media avevano tra i 20 e 22 anni. Quando Bigoni è venuto a conoscenza della storia di Shindler ha capito subito che era quella giusta per poter operare una riflessione sulla memoria storica e sull’importanza di preservarla.

Il film è un mediometraggio toccante e commovente che si apre sulle vaste inquadrature di una spiaggia sferzata dal vento e dalle onde, un’immagine che immediatamente richiama alla memoria uno dei topos visivi che tanti film di finzione ci hanno insegnato ad associare alla Seconda Guerra Mondiale.

Seguendo l’impostazione del libro di Patucchi e Shindler, Bigoni ripercorre tre casi su cui Shindler ha lavorato. Il primo è quello di Gabor Adler, un giovane ebreo ungherese al servizio dell’esercito britannico con il nome di John Armstrong, ucciso nell’eccidio della Storta a Roma e indicato per oltre 60 anni come inglese sconosciuto. Il documentario procede poi raccontando il caso, ancora irrisolto, dell’ufficiale di volo australiano Bob Millar, sparito con il suo aereo in una missione per portare rifornimenti ai partigiani del Nord Italia. Infine, l’ultimo caso è anche quello più conosciuto: Eric Fletcher Waters, padre del celebre Roger Waters, bassista e cantante dei Pink Floyd, il quale non ha mai conosciuto il padre e per 70 anni ha cercato, senza sosta, di ricostruire la sua storia. Anche la guerra di Roger Waters e di suo padre è finita proprio grazie a Shindler.

Le storie di questi soldati sono spesso narrate in prima persona e dalle lapidi bianche emergono le voci di quei giovani che a vent’anni sono costretti a fare testamento, di quelli che non sanno neanche quando sono morti, di quelli ancora che non si spiegano perché sono finiti sotto terra: Bernard dalla Cornovaglia, Richard, lo scozzese Paul McGregor…

Il tempo guarisce le ferite e il dolore, ma non colma il vuoto nelle vite di chi è rimasto. Shindler ha cercato di riempire questi vuoti della memoria per tutta la vita e il film di Bigoni è un omaggio commovente e appassionato tanto all’uomo quanto al suo lavoro. Lo stesso Bigoni si fa carico della necessità di tenere sempre viva la memoria e nell’interessante dibattito che è seguito alla proiezione del film ha sottolineato come questi giovani morti abbiano lasciato una traccia per chi la voglia vedere. A lui interessava proprio dar loro una voce perché “la memoria dovrebbe essere la spina dorsale della nostra società: dar loro voce è restituire voce a tutti noi.”

Foto di Martina Bonfiglio

Durante il dibattito si è anche avuta l’occasione di riflettere sul presente e su come le nuove vittime non siano più i soldati senza nome dei cimiteri militari, ma siano i giovani profughi sepolti in quel Mediterraneo che sta diventando un cimitero profondissimo. Allo stesso modo, non bisogna sottovalutare le derive fasciste che stanno tornando in auge in Europa, perché “il messaggio del libro e del film è che la memoria e il ricordare servono a non guardare fuori dalla finestra mentre le libertà vengono negate. Il pericolo oggi esiste, è reale.”

Harry Shindler ha colto poi l’occasione di ribadire quanto sia importante capire perché c’era la guerra: se si dimentica è facile che ricapiti: “Questo è il grande pericolo. La nuova generazione non ha idea di cosa sia la guerra, non conosce la sofferenza della gente. Abbiamo vinto, ma è costato caro. Le vittime non possono più parlare, ma io sì!”

Il cinema ha gli strumenti per poter raccontare e dare voce tanto alla memoria, quanto al presente e My War Is Not Over, raccontando la storia di Harry Shindler e di tutte le guerre a cui ha posto fine, ne è una prova ben riuscita.

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