“PIERCING” DI NICOLAS PESCE

Dopo The Eyes of My Mother, il newyorkese Nicolas Pesce, classe 1990, torna sul grande schermo con Piercing, tratto dall’omonimo romanzo di Ryū Murakami. Il film, thriller/horror con venature da dark comedy, racconta la storia di Reed, padre di famiglia e aspirante serial-killer, deciso a sfogare la propria maniacale inclinazione su una prostituta che si rivela più fuori di testa di lui. Nasce così un macabro gioco che inverte continuamente i ruoli all’interno della coppia, in uno scambio compulsivo tra vittima e carnefice.

Il protagonista, interpretato da Christopher Abbott, ricorda un po’ il Patrick Bateman di ellisiana memoria, per estrazione sociale e meticolosità nella messa a punto del crimine, come analogo ad American Psycho è il sotteso clima di grottesco sarcasmo. L’ambientazione è quella della metropoli notturna, dove i grattacieli, ritratti tramite lente carrellate verticali, sembrano elevarsi all’infinito, delineando uno spazio ripetitivo, metafisico e spersonalizzante. Non potrebbe forse esistere location alternativa per la messa in scena di questa storia di sex & violence, che molto ha a che fare con le psicopatologie di coppia dell’epoca contemporanea.

What’s the nastiest thing you’ve ever done?” chiede a Reed la ragazza nei primi istanti del loro incontro, domanda emblematica che rispecchia il bisogno dei protagonisti di spingere l’atto sessuale oltre gli ormai labili confini di ciò che è socialmente accettato, fino alla violenza estrema. Prosegue quindi la riflessione di Pesce sul corpo come elemento da marchiare, torturare; ma mentre in The Eyes of My Mother tutto ciò era funzionale alla messa in scena del complesso stato mentale della protagonista, e la vivisezione/appropriazione delle membra altrui si collegava a un desiderio (seppur malato) di crescita e conoscenza, qui il discorso pare inevitabilmente svuotarsi di tale complessità e ricchezza.

È innegabile la cura sul piano estetico, in particolare degli arredamenti, azzeccatissimi nel restituire il feticismo dei personaggi; il film funziona, infatti, se considerato quale esercizio stilistico e gioco di richiami allo spettatore, in cui l’omaggio al cinema di genere nostrano è esplicito (testimoniano i celebri brani presi in prestito da Assonitis, Miraglia e Argento).

Resta però carente l’incursione nella sfera psicologica; i flashback onirico-splatter hanno come unico esito quello di sovraccaricare e confondere gli elementi in campo, e i protagonisti risultano tratteggiati attraverso caratteri grossolani e stereotipati. Non esiste possibile evoluzione nel rapporto tra i due, e lo sfruttamento/abuso della superficie corporea sembra destinato a non evolversi mai in una reale penetrazione dell’intimità dell’altro, in un gioco sterile e idealmente protraibile all’infinito. Allo stesso modo risulta esteticamente impeccabile ma sostanzialmente vacuo il film nella sua totalità, e il finale aperto e tranchant, che interrompe bruscamente il film dopo soli 81 minuti, lascia inevitabilmente con l’amaro in bocca.

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