POWELL E PRESSBURGER: LA RETROSPETTIVA

Due tipi curiosi, Powell e Pressburger. Il primo (classe 1905) inizia a lavorare appena ventenne sui set di Hitchcock come fotografo, poi  diventa regista di successo con film di propaganda bellica tutt’affatto scontati e infine – con l’uscita di Peeping Tom (1960), cult metacinematografico che verrà riscoperto da Coppola e Scorsese – saluta la carriera, stroncata da una critica troppo sorniona e insicura per accogliere la sua pioneristica riflessione sul mezzo; il secondo (nato nel 1902), scrittore e produttore ungherese, parte dall’UFA berlinese e, in fuga dai nazisti, arriva a vincere l’Oscar per la migliore sceneggiatura con un film – pensa un po’ – sui nazisti in fuga.

La trentaseiesima edizione del Torino Film Festival omaggia “i due visionari pazzi” – nelle parole di Emanuela Martini alla conferenza d’apertura – proponendo una rassegna dei 24 film realizzati durante la loro collaborazione trentennale (dal ’39 al ’72) – più quel Peeping Tom alla cui produzione Pressburger non partecipò. Oltre ai capolavori dei The Archers – il nome della loro casa di produzione -, la retrospettiva includeva nel programma una conferenza introdotta dalla stessa Martini, al cui tavolo sedeva uno tra i più illustri studiosi del duo inglese, Ian Christie – oltre a diversi cultori nostrani – e una masterclass sul Technicolor a cura di Luciano Tovoli.

Michael Powell ed Emeric Pressburger

Perché proprio con l’aiuto del Technicolor Powell e Pressburger hanno realizzato i vertici della loro filmografia. Il decennio chiave, il più prolifico e il più essenziale, è quello del 1940, nel bel mezzo della guerra mondiale. Allora, nel giro di dodici anni, gli Archers di film ne fecero quindici: dal primo, The Spy in Black (1939), prologo della loro amicizia e collaborazione artistica, a The Tales of Hoffman (1951). Seguirono sparute attività – tre film minori dal ’55 al ’57, poi due puntini finali a distanza di più di dieci anni. Quel che resta però attuale e indimenticabile, è quel decennio chiave, in cui Powell e Pressburger hanno consegnato al controcanone della storia del cinema (quel canone che non s’insegna nelle accademie, ma in circuiti più vitali e critici) opere visionarie e senza tempo, il cui cromatismo vivido e saturo del Technicolor perfettamente si sposava con l’aura di sacralità pagana che ne ordiva le trame.

Si prenda The Life and Death of Colonel Blimp (1943), primo film a colori e primo a esser contrassegnato dall’iconico logo dei The Archers. A suo tempo osteggiato dalla critica per un presunto sbeffeggiamento dei vertici dell’esercito di Sua Maestà, oggi è ammirato da pubblico e intenditori per la pregressa modernità. Dice Giaime Alonge, prendendo parola alla conferenza, che quel che allora sembrava un’istanza critica nei confronti dell’esercito inglese, ha in realtà lo spirito della propaganda intelligente: ambigua, ma efficace e tagliente. D’altronde la candida amicizia tra il Colonello Blimp e Kretschmar-Schuldorff, i protagonisti del film (interpretati dai due, tra i tantissimi, attori feticcio di Powell e Pressburger: Roger Livesey e Anton Walbrook) ricalcava l’esperienza autobiografica dei due produttori, e prova sufficiente ne sia la loro appassionata condivisione di quel marchio di fabbrica che è il bersaglio rosso-bianco-blu, contrassegno di tutte le loro successive produzioni. Il tema amicale tornerà più volte nella loro filmografia e così quello della guerra (valga un titolo su tutti: 49th Parallel (1941), Oscar alla sceneggiatura per Pressburger per quel suo superbo “senso della forma”, per usare le parole di Ian Christie).

I protagonisti delle maggiori opere in Technicolor dei The Archers (al centro)

A primeggiare però, per frequenza tematica, è l’elemento magico, stregonesco, che Emeric Pressburger fa aleggiare nell’atmosfera delle sue trame – un elemento poi ineccepibilmente reso nella messa in scena dalla mano creativa di Michael Powell. In realtà già prima di dedicarsi al Technicolor – attraverso cui la magia acquistava un surplus di valore grazie al cromatismo di maggiore impatto visivo -, i due realizzarono opere in cui il senso del fiabesco s’intrecciava al realismo della guerra o al romanticismo della ventosa terra d’albione, tanto che Christie ha parlato di neoromanticismo per connotare parte del corpus delle loro opere – accomunandoli con ciò alla corrente allora viva in patria. Con A Canterbury Tale (1944), infatti, la campagna inglese si popola di donne, soldati e del primo di una lunga serie di stregoni (“the glue-man”, Mr Colpeper) che punteggeranno molta della loro filmografia successiva; mentre in I Know Where I’m Going (1945) il romanticismo di P&P tocca vette mai più raggiunte, o solo sfiorate con Gone To Earth (1950) – film ingiustamente trascurato nella conferenza, ma che pare, a chi scrive, la sontuosa summa della poetica erotico-fiabesca del duo.

La “sospensione del reale” attivata nelle loro opere – di cui dice in conferenza Barbara Grespi, riferendosi nello specifico ad I Know Where I’m Going -, torna a far sognare personaggi e spettatori nella trilogia delle meraviglie che segue nella produzione dei The Archers: A Matter of Life and Death (1946), Black Narcissus (1947) e The Red Shoes (1948). Sono film fondamentali, su cui molto si è già detto e altro si è approfondito nella conferenza del TFF. Sono film in cui Jack Cardiff firma la direzione della fotografia – e tanto dovrebbe bastare a dimostrarne il valore. E sono film che segnano un punto di svolta nella produzione di Pressburger e Powell: non nella poetica, quanto più nella resa dell’immaginario fiabesco. Si veda Black Narcissus: pur essendo l’opera meno strutturalmente coesa delle tre – la penna di Pressburger sembra sbavare nel trattamento di alcuni personaggi secondari -, è quella in cui “il discorso paesaggistico cambia radicalmente”, come afferma Emiliano Morreale, e in cui da un romanticismo più o meno realista si passa all’innaturalismo totale. Un innaturalismo che, ricordiamolo, è valso l’Oscar alla migliore scenografia ad Alfred Junge e quello alla direzione della fotografia a Cardiff.

Eric Portman, Thomas Colpeper in “A Canterbury Tale” (1944)

Impossibile, poi, accennare soltanto al primo e all’ultimo titolo della trilogia, ché le parole per raccontarne la meraviglia e il miracolo non sarebbero sufficienti. Se A Matter of Life and Death è un incanto di invenzioni e giochi di luce (Luciano Tovoli s’è commosso a parlarne), The Red Shoes è la perla più preziosa tra i gioielli. Mariapaola Pierini ne descrive la perfezione formale, o meglio, la giustezza dell’integrazione dei corpi danzanti nello spazio scenografico attraverso il montaggio; la potenza che deriva da quel gusto così preciso, o meglio da quella sensibilità così acuta di Powell e di Pressburger – che qui fece uscire al meglio il suo passato da violinista – capace di esprimere la sensazione della danza cui tanto cinema successivo farà riferimento.

Chiude la conferenza e la rassegna Peeping Tom, film-cult e film-maledetto. La carriera di Powell si spense praticamente così, non già con uno schianto, ma con un noiosissimo lamento di quella critica bigotta e austera che una riflessione così complessa e labirintica ancora non poteva accettarla. Non che gli Archers fossero mai stati del tutto amati; prima c’era il neorealismo e poi comunque loro sussurravano in demoniaco, nella lingua oscura e rossa dell’erotismo e del desiderio, onda lunga di quell’espressionismo tedesco con cui i due dialogavano molto più che con le voci impegnate degli anni cupi della guerra. E sarebbe perciò curioso indagare kracauerianamente la psicologia – non troppo latente e repressa – del cinema inglese da Powell a Pressburger e vederne affinità e divergenze coi moti sotterranei del cinema tedesco – da cui d’altronde Emeric era passato.

Karlheinz Böhm, protagonista di Peeping Tom (1960)

Tornando a Peeping Tom L’occhio che uccide nella poco sottile traduzione italiana – Federico Pedroni, parlandone in conferenza, lo segnala come primogenito dell’horror contemporaneo, avvicinandolo con questo a Psycho di cui era gemello diverso.  Hitchcock, giocando con la suspense, e Powell, lavorando sulla complessità, hanno entrambi impregnato la cultura cinematografica di chi è venuto dopo di loro. E ci si chiede allora perché di Psycho se ne parli ovunque ancora oggi mentre Tom ha fatto per troppo tempo più o meno la fine di Eliogabalo.

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