“RAGAZZI DI STADIO, QUARANT’ANNI DOPO” DI DANIELE SEGRE

“Non sono un delinquente: sono un ultras. I delinquenti fanno le rapine, io faccio gli scontri.”
A parlare è il Capo Guerra dei Drughi, il gruppo ultras juventino che regna nel secondo anello della curva Scirea, all’Allianz Stadium di Torino. Seduto sulla sua poltrona nella sede del gruppo in via Tiepolo – da dove segue le partite attendendo la fine della sua diffida – il Capo Guerra spiega quali sono le sue mansioni e rimarca l’importanza che ha, nell’organizzazione del gruppo, rispettare il proprio ruolo.

In maniera tassonomica Segre ci presenta i protagonisti del suo nuovo documentario, girato quarant’anni dopo l’omonimo “prequel”. Il film è infatti la continuazione di un lavoro d’osservazione che il regista, il primo a portare la macchina da presa nei luoghi d’aggregazione del tifo calcistico italiano, ha svolto e vorrebbe continuare a portare avanti  – come anche dichiarato in conferenza stampa augurandosi un Ragazzi di strada: 80 anni dopo.

Lo sguardo di Segre mette a fuoco, in maniera obiettiva e non moralmente filtrata, l’intera scala gerarchica del gruppo ultras, dai membri storici alla Sezione Giovinezza, ripercorrendo la genesi dei Drughi ma anche concentrandosi sull’evoluzione sia sociale che politica dietro al tifo: da tendenzialmente di sinistra del post-sessantotto al dichiaratamente di destra dei giorni nostri.

Nell’omonimo documentario di quarant’anni fa scopriamo infatti come i gruppi ultras juventini nascono negli anni 70 con Venceremos e Autonomia Bianconera, schierati a sinistra. E nella seconda metà di quel decennio Beppe Rossi fonda i Fighters, antenati dei Drughi.
La figura di Beppe è quasi mitologica tra i tifosi bianconeri: leader poco più che ventenne capace di trasformare radicalmente il tifo organizzato italiano prendendo ad esempio il modello inglese. È anche grazie al lavoro svolto da Segre come documentarista di questo mondo e al suo ritratto di Beppe nel primo film, che il regista riesce a guadagnare la fiducia degli ultras e a farsi aprire le porte del club, portando alla luce un ritratto onesto e credibile del Drugo.

Un film difficile da digerire per chi prova un amore non meno ossessivo ma decisamente meno impetuoso e squadrista: quasi un’ora e mezza in sala passata tra trattenersi dal cantare i classici cori bianconeri insieme ai protagonisti e storcere il naso quando i cori cedono il posto a inni fascisti, commuoversi con i racconti dell’Heysel e rimanere turbati davanti ad uno strano modo di intendere la violenza.
Il film però aiuta ad avvicinarsi e a provare a comprendere la psicologia dietro questi individui spesso guardati con diffidenza: tramite un’accurata analisi quasi antropologica, il mondo ultras diventa specchio dei cambiamenti della società, riflettendo il disagio delle periferie che trova uno sfogo, seppur troppo spesso ai limiti della legalità, grazie all’aggregazione che crea il tifo.

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