“ORO VERDE – C’ERA UNA VOLTA IN COLOMBIA” di ciro guerra e cristina gallego

Ricorda insieme Shakespeare, Il Padrino e la tragedia greca questo Oro verde: c’era una volta in Colombia. Ma leviamoci subito il sassolino dalla scarpa: nonostante le pur ammissibili analogie tra questo film e quello di Leone cui si rimanda nella traduzione italiana, la nostra distribuzione si è macchiata per l’ennesima volta di tradimento nei confronti del titolo originale, Birds of Passage, che vorrebbe raccontare, più che banalmente il plot, metaforicamente lo spirito dei personaggi coinvolti nella vicenda: uccelli di passaggio, per l’appunto, e non gangster del contrabbando.

Spieghiamoci meglio: l’oro verde di cui si dice nel titolo è la marijuana, di cui qui si racconta la presto scoperta commerciabilità verso l’America e i suoi nuovi famelici hippies. Siamo infatti nel 1968 e nel mezzo di piccole comunità colombiane chiuse in loro stesse – nei loro riti danzati e nei loro sogni magrittiani – entra a gamba tesa la Storia, crudele antagonista di un mondo che vorrebbe preservarsi senza mai evolvere, fossilizzato com’è sulle sue tradizioni secolari. E la Storia ha l’aspetto di hipsters smanicati dai capelli biondi e di ragazze ubriache e svampite, blandi stereotipi del capitalismo fricchettone che imperversava in Occidente in quegli anni. Loro, gli americani, sono i Peace Corps: venuti in Colombia per aiutare i contadini bisognosi e afflitti dalle necessità insoddisfatte della loro frugalità, nei fatti propagandisti anti-comunisti e pionieri del contrabbando internazionale dell’oro verde. E il risultato dell’incontro tra la società fredda delle comunità tribali e la società calda occidentale (così ne direbbe Levi-Strauss) – e nello specifico tra i protagonisti della famiglia colombiana di etnia Wayuu e i Peace Corps statunitensi – è la fatalità del rovinoso destino dei primi: la caduta della casa Wayuu.

Il sogno di una protagonista del film.

Una caduta raccontata in cinque atti, qui divenuti canti, con tanto di corifeo nel prologo e nell’epilogo. Canti wayuu, ovviamente; perché in questo Birds of Passage quel che riesce meglio è il parlare la lingua indigena, senza concessioni bonarie al mercato mainstream che pretenderebbe una semplificazione costante dei significanti foresti. Per lingua indigena non s’intende soltanto la scelta di Ciro Guerra e Cristina Gallego (registi a quattro mani del film) di far parlare i propri antieroi nella lingua nativa wayuu; quanto più l’intero sistema di segni etnico, la grammatica sociale che spiega la comunità. E allora danze, amuleti, gerarchie, sogni: tutto parla la lingua wayuu, e lo fa bene e con coraggio autoriale, tanto che molta critica si è spinta a parlare di film antropologico: perché si sente, veramente, il respiro del vento di Colombia e gli uccelli di passaggio, che ogni tanto da questo vento vengono trasportati sullo schermo, si associano indelebilmente, nella memoria dello spettatore, all’antica terra di Colombia – una terra che nel corso dei dodici anni in cui si snoda il racconto si macchierà, a seguito di quel fatale incontro/scontro tra culture, del sangue fratricida di comunità corrotte dal malevolo spirito mercantilista.

Cristina Gallego e Ciro Guerra

Quel che riesce meno, invece e infatti, è proprio la critica ridondante al Mercato e al Capitale: senza contraddittorio e già dichiarata senza mezzi termini fin dal principio, la critica non si smarca mai dall’opposizione buoni/cattivi che contrassegna ogni lamentela scadente. I personaggi, anche forse a causa di interpretazioni non trascendentali – come un’epopea ambiziosa e dai risvolti universali si meriterebbe – e di dialoghi fin troppo chiari nel palesare i significati, sono piatti, senza un’intima evoluzione. Forse perciò a Birds of Passage, manca la catarsi della tragedia greca. Nonostante alcune superficialità, bisogna però intendersi sulle qualità della pellicola: che rimane grande, coraggiosa e importante nel modo in cui impone al genere gangster un afflato poetico e un’ambiziosa originalità.

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