“KANARIE” (“CANARY)” DI CHRISTIAAN OLWAGEN

Un ragazzo vestito da sposa, seguito da due ideali damigelle, percorre la via di una piccola cittadina del Sudafrica, lasciandosi alle spalle ogni inibizione ed ogni pensiero di timore. Libero, balla e canta in armonia con il mondo che lo circonda. Con disinibizione e audacia guarda dritto in macchina, guarda gli spettatori e tutto sembra perfetto, proprio come le canzoni introduttive tipiche dei musical di Broadway. Al di là di un piccolo timore iniziale, il gesto di uscire in strada con quell’abito femminile, sembra solo una piccola sfida fra amici che non può avere risvolti amari, perché ogni cosa suona e balla armoniosamente. C’è aria di festa, di liberazione dagli schemi sociali, nella danza di quel del ragazzo vestito da sposa; si coglie l’apice della sua felicità e nulla potrebbe rovinare quel momento se non il clacson dell’automobile del prete del quartiere, che lo intima di tornare immediatamente a casa.

Inizia così il coming-of-age musical drama di Christiaan Olwagen, intitolato Kanarie (Canary), ambientato nel 1986 in Sudafrica. Il contesto lascia ben intuire che quel gesto liberatorio di Johan (Schalk Bezuidenhout), protagonista del film, ingabbiato in un’omosessualità repressa, diventa un tabù assoluto per la comunità in cui vive, composta da bianchi protestanti e cattolici, immersi nel contesto dell’apartheid.
Il regista adopera la classica introduzione dei musical hollywoodiani per evidenziare prepotentemente quanto la realtà possa essere crudele rispetto a quel mondo di illusione, balletti e costumi, in cui ogni cosa è al proprio posto. In un musical canonico, quella sequenza musicale iniziale potrebbe essere collocata al termine del film, come espressione della soddisfazione dei desideri del protagonista, invece che essere l’emblema di ciò che Johan ancora non ha.
Le scene più strettamente legate al mondo del musical continueranno ad essere ancorate alla psicologia del personaggio, incapace di accettare la propria omosessualità e dunque di sapersi guardare nello specchio e, di riflesso, guardare negli occhi tutto il resto del mondo. Il regista decide di far esternare questa forza solo in quei ritagli di musica e fantasia, in cui Johan riesce a guardare dritto nella macchina, poiché libero da qualsiasi pensiero che gli impedisca di alzare lo sguardo e sfidare il mondo che lo guarda.

Dato il periodo storico, il protagonista si ritroverà immediatamente reclutato nell’esercito ma, per sua fortuna, verrà impiegato nei cosiddetti “Canarini”: il coro e orchestra militare, il cui scopo è girare il paese promuovendo il sostegno al conflitto in corso, giustificadolo come una guerra voluta da Dio. In questa esperienza, tramite il cameratismo che si sviluppa nel gruppo canoro, Johan impara a uscire da quel limbo in cui si era rinchiuso: un mondo di mezzo che non lo spingeva ad emergere e a farsi notare, perpetrando nell’idea che restare in quella condizione, gli avrebbe garantito una vita tranquilla e senza guai. In realtà, il suo comportamento non faceva altro che rimandare l’inevitabile: il confronto duro e crudo con la vera immagine del suo Io.
Proprio il suo prendere posizione, a tutela di un membro del coro, inizierà a farlo emergere, facendogli vivere la propria omosessualità.
Questa presa di coscienza la deve, in particolar modo, al compagno Ludolf Otterman (Germandt Geldenhuys), la cui esuberanza, schiettezza e ironia servono anche ad alleggerire i toni del film.

Christiaan Olwagen bilancia oculatamente ironia e tragicità, qualità che impedisce al film di sprofondare in un dramma eccessivamente carico di tematiche serie quali: l’accettazione di se stessi, le contraddizioni di una società che si dice credente, pur appoggiando ideali sociali sbagliati, la guerra, l’abuso di potere da parte dei comandanti, all’interno della caserma e tutto ciò che l’apartheid comportava.
Nelle varie situazioni ironiche che il regista propone, nel contesto dell’addestramento militare, c’è quella di richiamare un film già di per sé fortemente grottesco nella sua crudezza lessicale ed espressiva, Full Metal Jacket di Stanley Kubrick. In particolare, il regista, si diverte a prendere in giro le famose sfuriate del sergente Hartman e la scena in cui punisce il soldato “Palla di Lardo” per aver nascosto una ciambella. L’inserimento di situazioni e battute ironiche, inframezzate dalle struggenti interpretazioni canore del coro militare, fa sì che i momenti drammatici ottengano grande visibilità e impatto emotivo.

Proprio a fronte di quei momenti in cui Johan vive serenamente la propria sessualità e la vita quotidiana, il suo continuo sprofondare in momenti di incertezza e di paura nel confronto con la famiglia, la società, gli amici, l’amante e se stesso, diventano scene cariche di tensione e pathos, scene in cui lo spettatore può percepire il profondo dramma psicologico che il protagonista sta vivendo. Dalla scena in cui, non proferendo parola, scruta con timore il suo riflesso nello specchio, con addosso un vestito da donna a quella in cui si lascia andare a un ballo di disperazione e sfogo di ogni tensione interna, Olwagen è stato capace di ricostruire l’accerchiamento che percepisce Johan.
Sia il dizionario, l’oggetto più laico e obbiettivo che esista, nel dare significato alle parole, sia la Bibbia, in cui crede, riportano parole d’odio e ripudio verso la sua condizione da omosessuale, impedendogli un cammino di accettazione che gli appare, nei momenti di delicata effusione col suo compagno Wolfgang (Hannes Otto), qualcosa di assolutamente naturale. Nel sentirsi rifiutato da tutto e tutti, Johan, non riesce ad accettare completamente se stesso.

La musica e il coro dei Canarini, potrebbero essere l’unica forma di linguaggio puro e onesto, che danno un alito di speranza a Johan e ai suoi camerati. Perché, come suggerisce il reverendo Koch, in un monologo, la musica è ciò che tende al giusto, per tutto il resto non si può sapere dove penderà l’ago della bilancia. La guerra, la segregazione, l’intolleranza, i gesti dei politici, tutto si annulla in quelle bolle temporali create dal canto e dal ballo.

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