“LA MIA VITA CON JOHN F. DONOVAN” DI XAVIER DOLAN

A volte capita, da piccoli, di essere attratti da un amichetto che gonfia la Big babol davanti ai nostri occhi: la bolla diventa sempre più grande e si resta ammaliati, fino a che non esplode lasciando i resti di chewing gum masticata sul suo volto, trasformando un momento spettacolare in un momento imbarazzante, che mette a disagio sia te sia il tuo amichetto. Ecco, questa è la sensazione che, purtroppo, La mia vita con John F. Donovan, ultimo film di Xavier Dolan, lascia non alla fine del film, ma subito dopo i titoli di testa, visto che è qui che la trama si esaurisce.

Primo film in lingua inglese dell’enfant prodige giunto alla soglia dei trent’anni, lascia una sensazione spiacevole: preceduto da problemi in fase di editing e montaggio che hanno purtroppo tagliato la parte di Jessica Chastain, più che un film per il cinema, potrebbe essere un film per la televisione. Il genere tanto amato dal regista, il melodramma, viene assorbito in una storia da soap-opera in cui i piani temporali della narrazione si sovrappongono, generando confusione: in primis, il protagonista Rupert (Ben Schnetzer / Jacob Trembley nella parte del bambino), alla soglia dei vent’anni, racconta la storia del suo scambio di lettere avvenuto con un famoso attore televisivo, John F. Donovan (Kit Harington), durato cinque anni e iniziato quando il protagonista ne aveva solo sei; e poi il rapporto travagliato con la madre (Natalie Portman), ex attrice abbandonata dal marito dopo aver scoperto della sua gravidanza.

John F. Donovan (Kit Harington) in un frame del film

Una sorta di racconto di formazione che procede tramite flashback, in cui le immagini sono spesso coperte dai soliti tappeti sonori pop tanto amati da Xavier Dolan (da Adele con Rolling in the Deep fino a Stand By Me nella versione di Florence and The Machine): la storia si divide tra l’America degli studi televisivi, luoghi di finzione, di superfici patinate, di anime perse che diventano importanti solo davanti agli obiettivi delle telecamere delle luci del palcoscenico cinematografico-televisivo, e un’Inghilterra piovosa, fatta di metallo, ruggine e atmosfere cupe. Chi conosce il regista capisce subito il difetto strutturale del film, ovvero la sua eccessiva autoreferenzialità.

La storia infatti è un semplice ricalco del passato del regista: anche lui inizia la sua carriera da attore a soli otto anni per spot televisivi e, alla stessa età, scrive una lettera dedicata al suo amato idolo Leonardo di Caprio, invitandolo nella sua città, Montréal. Le tematiche rilevanti, come la venerazione dell’idolo, la celebrità, la fama e l’omosessualità ad Hollywood, si trasformano in uno spettacolo parodico e ripetitivo, chiuso all’interno di una vetrina troppo rigida in cui il vero protagonista, Kit Harington, non dimostra di sentirsi a suo agio: le sue scene sembrano per lo più fotografie di moda, in cui la bellezza del soggetto e del vestito prevalgono sulla recitazione, spenta, fiacca, apatica.

Da sx verso dx: Kathy Bates, Kit Harington, Susan Sarandon (immagini promozionali del film)

Purtroppo, il settimo film del regista sembra un passo falso che obbliga lo spettatore a seguire una storia difettosa, un collage poco riuscito di elementi ricorrenti nella sua filmografia: la famiglia, l’omosessualità, il rapporto madre-figlio, l’assenza paterna sono cuciti in un abito troppo largo, sfiancato e poco vestibile per il pubblico. Cosa resta di quei momenti divertenti come in È solo la fine del mondo, in cui Nathalie Baye, Léa Seydoux ballano felici sulle note di Dragostea din Tei? O di quel momento straziante del falso finale di Mommy, sugli archi di Experience di Ludovico Einaudi, in cui Antoine Olivier Pilon sembra raggiungere gli obiettivi della sua vita dopo aver risolto i problemi legati al disturbo oppositivo provocatorio? Cosa resta di quell’onirica caduta di vestiti dal cielo nell’utopistica Île au Noir accompagnata dalle note elettroniche di A New Error di Moderat nel suo Laurence Anyways, o di quella festa sulla musica dei The Knife, Pass This on, in cui l’attore Dolan osserva la bellezza da adone greco di Neils Schneider?

Un frame dal film Laurence Anyways (2012)

L’attenzione estrema all’impianto formale delle immagini pare totalmente assente in La mia vita con John F. Donovan, in cui la storia si riassorbe nel nero dei titoli di coda accompagnati da una scelta musicale scontata, noiosa, al limite dell’adolescenziale di Bittersweet Symphony dei The Verve. Un’occasione tanto aspettata quanto mancata: speriamo che nel suo prossimo film, Mathias & Maxime, mostrato in anteprima alla 72esimo Festival di Cannes e in uscita nel prossimo ottobre, Xavier Dolan possa tornare a essere il regista che era.

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