“MIDSOMMAR – IL VILLAGGIO DEI DANNATI” DI ARI ASTER

La protagonista di Midsommar – Il villaggio dei Dannati di Ari Aster è Dani (Florence Pugh), dottoranda di psicologia che dopo aver perso i suoi genitori e la sorella cerca rifugio nel suo ragazzo Christian (Jack Reynor). Lui è un aitante quanto accondiscendente e allo stesso tempo insicuro, se non inetto, studente americano di antropologia che, fin dall’inizio, mostra segni di insofferenza nei confronti della giovane, confondendo la sua malattia mentale con una ‘ricerca di attenzioni’. Un viaggio in Svezia organizzato da Pelle (Vilhelm Blomgren), amico di Christian, serve da palliativo al dolore della giovane che però viene invitata con ritrosia.

I protagonisti di “Midsommar” in un frame del film. Da sx a dx: Christian (Jack Reynor), Dani (Florence Pugh), Josh (William Jackson Harper), Pelle (Vilhelm Blomgren).

La forza di Midsommar è di riuscire a raccontare una storia dell’orrore senza dover ricorrere al buio, alle ombre, a ciò che non si vede: l’Hälsingland svedese, con le sue lunghissime giornate d’estate in cui la luce scompare solo per un paio d’ore, diventa un perverso panorama da cartolina in cui avvengono rituali d’iniziazione sanguinolenti, animaleschi, violenti in un culto di uomini e di donne, spesso costrette all’endogamia, sotto un’aura di apparente e candida tranquillità. Ari Aster compie un vero e proprio studio antropologico di questa comunità altera e ambigua: è capace di raccontare un universo in cui le norme sociali e religiose sono decise con una precisione chirurgica in cui, ad esempio, gli anziani si suicidano gettandosi da una rupe anziché sacrificare il loro corpo al passare del tempo, e le donne si intrattengono in una danza lunghissima, simile a un sabba stregonesco, che serve a decidere la “regina di Maggio”.

La scrittura e la direzione, che portano entrambe la firma di Aster, richiamano quel mondo opaco, buio e triste di Hereditary, suo primo film, e ne riprendono alcuni temi: il disagio mentale, la deformazione fisica, il rituale magico ma anche le modalità del racconto che inseriscono entrambi i film nella forma di slowburn horror movie, che muovono da ritmi molto dilatati per terminare con una violenta escalation di azioni orrorifiche e gore. Acclamato dalla critica, Midsommar utilizza mezzi ipnotici (chiarezza d’immagine, distorsioni ottiche, immagini capovolte, note e suoni di archi, flauti e fisarmoniche ripetuti) per attirare lo sguardo dello spettatore e coinvolgerlo nella sua storia di due ore e mezza: alla dissolvenza finale, quando il rituale tra film e spettatore si spezza, ci si domanda però se ciò a cui si è assistito sia stato realmente ‘originale’ o ‘mai visto’, soprattutto per la scelta di girare un horror alla luce del sole che in realtà è, forse, e soprattutto, una storia d’amore che finisce.

Foto promozionale del film “Midsommar”.

Infatti, non solo una storia simile è stata già raccontata con The Wicker Man da Anthony Shaffer e Robin Hardy nel 1973, ma alcune inquadrature e scelte di montaggio ricordano tanto Shining di Stanley Kubrick (il montaggio alternato tra le immagini dei genitori e quelle degli anziani sulla rupe ricorda quello delle gemelline vestite di azzurro), quanto il più recente Suspiria di Luca Guadagnino (la scena del sabba che richiama quella dell’analogo rito in onore di Mater Suspiriorum). Nonostante il gioco di citazioni e richiami, possiamo dire che il racconto di Midsommar si risolva, in fin dei conti, in una perversa vendetta nei confronti di un uomo che non sa amare e di una donna che ha perso la stabilità familiare e relazionale all’interno di una cultura straniera precisamente disegnata, spingendoci così a ragionare sulla questione delle tradizioni e degli stereotipi sulla diversità.

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