“EL HOYO – THE PLATFORM” DI GALDER GAZTELU-URRUTIA

Ricorda, caro mio Sancho, chi ha di più deve fare di più.

Sono profondamente d’accordo. Potesse spiegarglielo Quijote agli “ospiti” dell’hoyo.

Goreng (Ivan Massagué) però lo sa bene. Ha scelto di portare con sé proprio il libro di Cervantes. Divide la stanza al 48esimo piano della Torre con il vecchio Trimagasi (Zorion Eguileor) e ogni mese si svegliano collocati in un piano diverso: chi sta più in su ha accesso ad una maggiore quantità di cibo, chi sta giù deve accontentarsi degli avanzi ma i poveri diavoli del fondo sono costretti al cannibalismo per sopravvivere, talvolta al suicidio a causa dell’ingordigia di chi sta sopra di loro. Il numero dei livelli, tuttavia, rimane sconosciuto.

Tra le asettiche pareti in cemento delle celle i prigionieri vengono privati di qualsiasi forma di solidarietà e ridotti fino alla loro natura più bestiale e istintiva. Ma se ognuno pensa alla sua sola sopravvivenza che speranza c’è per la vita umana?

Tante, tantissime suggestioni e spunti di riflessione in quest’opera prima: dal Don Quijote, già citato, la quale morale e il quale aspetto iconografico rivivono in Goreng, alla struttura in medias res creditrice della saga di Saw, poi ancora l’apporto scenografico di The Cube di Natali e i dialoghi irrazionali e illogici più crudeli del Pinter di The Dumb Waiter.

Galder Gaztelu-Urrutia porta in concorso un’opera prima clamorosa nel suo essere così politica e così “di genere”, una critica feroce ai modelli politici attuali e del passato: verso l’individualismo del capitalismo liberale che approfitta dell’insito egoismo dell’essere umano strutturandolo in un edificio corrotto nel quale la ripartizione delle ricchezze non è equa ma anche verso il socialismo, verso la sua ridistribuzione delle risorse imposta e violenta.

Il tutto declinato da un modus operandi molto rigoroso come confermato da Galder in conferenza stampa: “La pellicola è stata molto pensata e curata, ovviamente ha un aspetto naturale ma è stato tutto molto pianificato fino all’ultimo dettaglio con uno storyboard perfetto al millimetro, di circa 1000 pagine.” Il vero colpo del regista basco resta comunque quello di aver dato con un montaggio asfittico e serrato ritmo e dinamicità alla cella, costruita come un’unica monolitica location, un non-luogo dall’aspetto minimalista e funzionale e di aver diretto gli interpreti in quella che diegeticamente era una stanza che mutava in continuazione pur rimanendo sempre la stessa grazie all’utilizzo di alcuni statuti del cinema di genere soprattutto splatter e action e ad un numero non quantificabile di mutilazioni e accoltellamenti.

“La grande vittoria del film è che alla fine Goreng tira fuori la parte di generosità in lui e fa la cosa giusta, manda il suo messaggio. Bisogna cercare di aiutare il prossimo, chiunque esso sia”.

Roberto Guida

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