ITALIANA.CORTI

Contravvenendo a una elementare regola di buona educazione si parlerà prima degli assenti: i corti di finzione. È forse il limite più grande della sezione Italiana.corti, che toglie spazio alla fiction concedendolo esclusivamente al documentario, alla docufiction, al mockumentary. Tornando alle buone maniere per quanto riguarda, invece, i presenti, la linea della selezione è chiara: si parte da una base di realtà. Reale che può essere alterato, rielaborato, persino negato, ma che è punto di partenza imprescindibile. La realtà catturata mentre accade, in sostanza. 

Indicativi di questa tendenza sono i “doc” puri: Caravaggio era un maiale (Giacomo Bolzani), racconto della vita quotidiana di un ex pubblicitario ora allevatore di maiali, il quale documenta con fotografie e autoscatti la crudeltà degli allevamenti essendone però complice; Smoke gets in your eyes (Riccardo Giacconi, Paolo Pennuti, Mirko Fabbri) racconta di un ex sassofonista ora cieco con l’uso di giochi di luce abbaglianti che simulano la perdita di vista, dato che costringono quasi lo spettatore a distogliere lo sguardo; Sublunary (Mariangela Ciccarello, Philip Cartelli) documentario sulla globigerina, la pietra caratteristica di Malta, che unisce attualità e storia; Passaggi (Beppe Leonetti) che mescola immagini dell’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa a storie familiari, nel tentativo di ricostruire la storia di un parente attraverso la vita d’altri; La Buca (Dario Fedele) racconto in freeze frame che ha il pregio di mostrare il carcere dall’esterno e il difetto di una regia troppo presente, come nei casi in cui è il regista stesso a parlare con i parenti dei carcerati, valicando il confine tra documentario e intervista.

Ci sono poi i corti che elaborano la realtà, trasformandola in altro. Lui e io (Giulia Cosentino) crea una narrazione attraverso il montaggio di immagini della Cineteca Sarda supportate dalla voce off della regista che racconta la vita di una coppia di tempi lontani; Incompiuta (Tiziano Doria, Samira Guadagnuolo) cattura in uno splendido 16mm il racconto di una perdita di una terra, la Basilicata, in attesa che qualcosa – qualsiasi cosa – accada e che forse non accadrà mai; La Tigresse (Fabrizio Paterniti) racconta – attraverso un bianco e nero spesso sovraesposto – il potere della memoria e di come la memoria condizioni attivamente la nostra quotidianità; Camera d’estate (Mattia Biondi) è la ricostruzione in montaggio di immagini personali e intime di vita vera, unite senza un apparente scopo narrativo, bensì espositivo.


Di Spera Teresa (Damiano Giacomelli), mockumentary su una cantante disabile che vive e lavora nelle zone del sisma del centro Italia del 2016, non si capisce quanto ci sia di improvvisato e quando di premeditato. La sensazione è quella di una realtà documentaristica che, a tratti, pare il video backstage di un film mai girato. L’unico caso in cui di vero probabilmente non c’è nulla è La volta che ho sognato Robert Oppenheimer e il fungo atomico che si alza nel deserto (Carlo Cagnasso), sperimentazione tecnicamente riuscita che mescola animazione a immagini in bianco e nero, ma di cui si fatica a collegare i corpi di donna nudi – usati come fossero oggetti – al titolo del film che richiama tutt’altro immaginario.

Giacomo Bona

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *