“IL LAGO DELLE OCHE SELVATICHE” DI DIAO YINAN

L’opera seconda di Yinan è una sinfonia visiva. Un gangster movie dalle tinte noir, in cui immagini e suoni si completano a vicenda per formare un insieme armonico, in cui il silenzio e la violenza esasperata sono gli elementi dominanti di una messa.

Il film è ambientato a Wuhan, città tristemente nota per i recenti fatti di cronaca. Dopo aver ucciso per errore un poliziotto, il boss Zenong Zhou (Hu Ge) è costretto a nascondersi nel sobborgo della città, un quartiere degradato che sorge su una sponda del “lago delle oche selvatiche”. Durante la fuga, l’uomo conosce Aiai (Lun-Mei Kwei), una prostituta che sta tentando senza successo di cambiare vita. Braccato dagli agenti del capitano Liu (Liao Fan) e da alcuni gangster rivali, Zenong pianifica di farsi consegnare alle autorità da Aiai, in modo che la donna possa incassare la taglia di 300.000 yen che gli pende sulla testa e condividerla con la moglie del boss.

Hu Ge e Lun-Mei Kwei in una scena del film.

Lo spettatore è immerso nel mondo sotterraneo del crimine, popolato da emarginati che non rispettano la legge ma sono fedeli al proprio codice d’onore. Il regista stesso si pone come osservatore silenzioso del comportamento di chi vive al di fuori delle convenzioni della società civile. I poliziotti sono obbligati a muoversi in borghese fra i vicoli del quartiere malfamato, ricorrendo agli stessi metodi dei criminali per ottenere informazioni. Il gangster Zenong, invece, è disposto a rinunciare a tutto, anche alla vita, pur di aiutare sua moglie.

Chi sono i buoni e chi sono i cattivi? Yinan non risponde, anzi, sembra suggerire che “buono” e “cattivo” siano solamente due estremi privi di significato, perché semplificano la complessità della natura umana.

Il film, nella prima parte, è poco limpido a causa del ricorso eccessivo ai flashback, anche uno dentro l’altro. Nella seconda parte, invece, la narrazione diventa lineare e procede attraverso un meccanismo di rimozione, sia delle parole sia delle persone. Vi sono intere sequenze in cui gli attori non pronunciano una sola battuta, e il vuoto viene colmato con efficacia dai suoni ambientali amplificati e dalle musiche. Inoltre, in alcuni momenti i corpi degli attori lasciano spazio alle loro ombre proiettate sui muri. L’atmosfera poetica viene brutalmente spezzata da scene crude in cui abbonda il sangue.

Il silenzio, in questo caso, comunica più della parola e permette di rivelare gli stati d’animo dei personaggi, individui alla deriva in un ambiente a cui sentono di non appartenere più.

Sirio Alessio Giuliani

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