“THE LAST DANCE” DI JASON HEHIR

Una overdose di contenuti audiovisivi. Se dovessimo ripensare agli ultimi due mesi ci accorgeremmo di aver consumato praticamente tutto il visibile nello spettro dei supporti video e delle piattaforme streaming, senza dimenticare gli abbonamenti premium dei siti per adulti, gratuiti a tempo limitato. Noi poi, che il cinema lo studiamo e che di cinema ci nutriamo, abbiamo fatto un’indigestione particolarmente violenta: dai classici “da recuperare” ai film da vedere per gli esami, da quelli che se non lo vedo ora, non lo vedrò mai più a tante, tante serie TV. Dal 20 aprile è disponibile su Netflix The Last Dance, docu-serie sportiva in dieci episodi che prende le mosse dalla stagione 1997-1998 dei Chicago Bulls, l’ultima di Michael Jordan nella città del vento, e ripercorre l’epopea vincente della squadra e dei suoi sei titoli NBA.

A differenza di altre uscite, gli episodi sono stati dilazionati in cinque settimane, anche se al momento del rilascio la serie era già diventata l’evento collettivo della quarantena, che ha tenuto incollati allo schermo appassionati e non, divorati dall’attesa per l’episodio seguente. Il 16 maggio, quando i due episodi finali devono ancora essere caricati, la serie è già la più vista di sempre su Netflix Italia.

Anche per questi motivi è stato necessario, più di altre volte, un certo distacco, una certa freddezza per scrivere questa recensione: l’attesa, la vita e la forma di questa serie sono circondate da un’aura di eccezionalità che rischia di compromettere qualsiasi filtro critico. The Last Dance è tante cose insieme, molto potenti e, quindi, non semplici da valutare.

Basterebbero le premesse, raccontare una delle più grandi imprese sportive della storia.

Basterebbe il protagonista, probabilmente il miglior interprete e la più ingombrante personalità del gioco della pallacanestro, una popstar mondiale che ha raggiunto tutte le latitudini e ceti sociali.

Basterebbero i suoi comprimari, un gregario sottopagato dai denti luminescenti, un maestro zen baffuto con le spalle larghe e, ovviamente, Dennis Rodman.

Basterebbe il cattivo più cattivo, un manager speculatore e sovrappeso che interrompe la festa proprio sul più bello.

Basterebbero le stupende ore di riprese e registrazioni audio che giacevano da vent’anni negli uffici della lega, dove la NBA li custodiva come un segreto federale: la camera che entra in campo con gli atleti e ci carica di un agonismo contagioso, i backstage intimi e rivelatori come non se ne potrebbero più fare e le urla liberatorie, i respiri stanchi e quel coro, What time is it? Game Time, Hoo!

Basterebbe la firma onesta di Jason Hehir, noto per il lavoro fatto con André The Giant, il documentario HBO più visto di sempre, che realizza interviste alle più grandi personalità del jet set cestistico americano.

Basterebbero da soli tutti questi elementi, estremamente rivelanti ma che in ultima istanza non trovano una giusta alchimia. Se i primi tre episodi hanno effettivamente un equilibrio, in seguito ogni evento viene rielaborato non in sé ma in chiave MJ che purtroppo diventa una presenza soverchiante nei delicati rapporti di forza interni. L’ultima danza di un leggendario corpo di ballo, diventa un assolo celebrativo e propagandistico dell’étoile.

Da qui si sviluppa una costruzione ostentata e molto americana dell’eroe che combatte i suoi demoni e che li sconfigge con le sue capacità individuali, un racconto retorico assolutamente non necessario e spacciato per nuovo, quando, in realtà, la legacy lasciata dalla guardia dei Bulls è definita da tempo. Le presunte rivelazioni, supportate dalle goffe e ingombranti musiche, sono fatti arcinoti per chiunque conosca un minimo la figura di Jordan: i record del college, il patologico spirito competitivo, la morte del padre, il gioco d’azzardo, il bullismo verso i compagni, il Flu Game, The Shot.

Senz’altro tutto ciò estende il suo mito verso un pubblico di non appassionati, il che è comunque una virtù importante ed è per questo che The Last Dance è più simile a una barocca e scintillante agiografia che a un racconto di una delle squadre più forti del gioco della pallacanestro.

Significativo alla luce di tutto ciò diventa il momento nel quale Jordan decide finalmente di concedere l’utilizzo del materiale d’archivio: il 2016, quando i Golden State Warriors con 73 vittorie rubano il record della Regular Season ai Chicago Bulls del ‘96, per poi venire rimontati alle Finals da 3-1 a 3-4 da LeBron James e i suoi Cavaliers, impresa mai riuscita a nessun altro cestista.

Roberto Guida

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