“EL ELEMENTO ENIGMÁTICO” DI ALEJANDRO FADEL, “THE PHILOSOPHY OF HORROR – A SYMPHONY OF FILM THEORY” DI PÉTER LICHTER E BORI MÁTÉ

Lente panoramiche perlustrano un paesaggio siderale, una distesa di montagne ricoperte dalla neve e sovrastate dal vento. È forse un territorio alieno quello al centro di El elemento enigmático, un ambiente ostile in cui tre uomini avanzano a fatica. Uomini in casco e tuta da motocliclista, senza volto né voce (ne comprendiamo i dialoghi solo mediante i sottotitoli), che vagano senza meta aspettando la propria fine. Un clima di sospensione permane per tutto il film, un’opera difficilmente catalogabile, a metà strada fra narrazione e videoarte . Se infatti è possibile rintracciare aspetti cari alla fantascienza, come lo scontro fra natura e uomo, questi vengono risucchiati dall’onnipresente aura di mistero, un’atmosfera densa e al tempo stesso impalpabile, come i vapori ghiacciati qui emanati dalle rocce.

Nessun appiglio, dunque, per risolvere l’enigma: il film ha la stessa consistenza del paesaggio innevato, similmente muto, impenetrabile, refrattario al senso. Resta solo un’arma all’uomo per accostarsi alla natura: questa la funzione dello sperimentalismo stilistico impiegato da Alejandro Fadel, manipolazione del reale per tentare di comprenderlo.

Dove El elemento enigmático registra l’impotenza dell’individuo di fronte all’immensità del reale, e lo sperimentalismo è tentativo di avvicinamento destinato a fallire, The Philosophy of Horror – A Symphony of Film Theory propone il riscatto dello sguardo umano, possibile poiché il confronto non avviene con la natura, ma con la cultura. Oggetto del video-saggio sono il cinema di genere e i primi due capitoli di una delle sue saghe più celebri: quella di Nightmare.

I film sono tuttavia solo il punto di partenza, ispirazione alla base di una rivisitazione iconica quasi pop-art in cui le immagini vengono ripetute, trasformate e defunzionalizzate. L’alterazione praticata da Péter Lichter e Bori Máté sulla pellicola originale assomiglia a una serie infinita di reazioni chimiche, come se i registi volessero sciogliere i film per osservare gli elementi che li compongono. La materia va così incontro a un processo di mutazione: il flusso immersivo (ma soprattutto sommersivo) di fermo-immagini porta i frammenti dei due film all’ebollizione, per scomporli e penetrarne il meccanismo semantico. Un’operazione simile a 24 Hour Psycho, installazione con cui nel 1993 Douglas Gordon rallentava all’estremo il capolavoro di Hitchcock (altro pilastro del genere) per dilatarne il flusso e comprenderne il senso.

Se il video-saggio rappresenta una formula oggi diffusa nella rielaborazione delle immagini, The Philosophy of Horror compie un passo ulteriore, includendo nella sua riflessione la stessa teoria del cinema. Il flusso visivo è infatti interrotto da alcuni estratti dell’omomino saggio di Noël Carroll, definizioni di parole-chiave dell’audience theory che arricchiscono e guidano l’operazione.

Nonostante il film divenga così meta-saggio, esso non è tuttavia un trattato freddo e asettico. L’emozione spettatoriale studiata da Carroll filtra nel film, generando quell’effetto-specchio citato nei cartelli. Non solo (grazie in particolare alla colonna sonora) paura e inquietudine, ma anche trasporto e ipnosi, e la fascinazione dell’accostarsi all’elemento enigmatico.

Chiara Rosaia

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