“RED ANINSRI OR TIPTOEING ON THE STILL TREMBLING BERLIN WALL” DI RATCHAPOOM BOONBUNCHACHOKE E “MOM, I BEFRIENDED GHOSTS” DI SASHA VORONOV

Red Aninsri si apre con un dialogo tra gatti. Comunicano attraverso la più posticcia e artificiosa delle tecniche cinematografiche che gli consenta di proferir parola: il doppiaggio. Nessun tentativo di seguire le espressioni del loro muso, o le loro movenze. La voce umana aderisce ai loro corpi forzosamente, facendo valere la propria superiorità tecnologica. Un universo, quello di Red Aninsri, in cui tutto è squisitamente finto, dove tra le immagini del mondo e le loro sonorità permane una discrasia insanabile.

«Ang. Spesso, puttana. Meno spesso, spia». Così la protagonista del film di Ratchapoom Boonbunchachoke si presenta al pubblico, guardando dritta in camera, dichiarando a un tempo la propria finzionalità identitaria (in quanto spia) e quella del mondo in cui agisce (in quanto film).

Ang (interpretata da Sarut Komalittipong, ma doppiata da Teerawat Mulvilai) è una ladyboy costretta a travestirsi da uomo per catturare Jit (Atikhun Adulpocatorn), studente sovversivo che minaccia di minare l’integrità di un fantomatico “Governo” il cui effettivo orientamento politico rimane un enigma.

L’identità di Ang è un costrutto frutto di una problematica stratificazione carnevalesca. Né la sua voce né i suoi abiti le appartengono. E neanche le sue azioni: «Leggi il copione. Vestiti come indicato». Questo il tono perentorio con cui le viene intimato cosa deve fare da una radiolina parlante, il suo capo. Una voce che dirige non solo le azioni di spionaggio ma la narrazione cinematografica stessa. Nel mondo di Red Aninsri, incorniciato da uno stondato 4:3, tutto è spudoratamente cinema. I meccanismi della spy story regolano ogni azione di un mondo in cui la Guerra Fredda non è mai finita.

Ang dovrebbe irretire Jit, facendolo innamorare di lei (vestita da un ipotetico lui). Ma nell’universo di Boonbunchachoke non vi è differenza tra realtà e finzione. I due vocaboli perdono ogni statuto di validità, ogni valore differenziale l’uno nei confronti dell’altro. Ang sprofonda nel mare di tessuti carnevaleschi che la ammantano, innamorandosi della sua preda. Così come finisce per abbracciare la bellezza dell’universo cinematografico che la ospita, incapace di distaccarsi da quelle marche stilistiche démodé sulle quali inizialmente ironizza.

La Guerra Fredda -il bipolarismo bellico par excellence– è rievocata per essere risolta da quello che è un film assolutamente erotico, in cui tutto si compenetra, ibridandosi. Il cui il Tempo, e con esso ogni distinzione identitaria (sia essa morale, politica o di genere), cessa di essere un problema. Fino a quel fotogramma bianco finale, sotto cui tutto è annichilito e sussunto.

Dal bianco totale con cui si conclude il cortometraggio di Boonbunchachoke (30′), ecco affiorare le immagini di Mom, I befriended Ghosts, esordio al lungometraggio di Sasha Voronov. Quello che ci si para davanti agli occhi è un mondo perennemente innevato, colpito da una pandemia le cui cause -pare- sono da ricercarsi nell’acqua. Vale a dire nella principale componente della vita stessa. Al calo demografico scorre parallelo un irreversibile processo di impoverimento culturale: l’umanità, costretta in un’incessante ricerca della sopravvivenza, è divenuta l’ombra di se stessa. Ogni azione concorre al ripristino di un tempo primitivo, bestiale. A farla da padrone sono la violenza, la prevaricazione sull’altro (non più riconosciuto come proprio pari, ma come ostacolo al sostentamento personale), e l’incomunicabilità: la lingua umana, dissolvendosi, viene spodestata da mugugni, urla, respiri pesanti.

Come ne Il tempo dei lupi (Le temps du loup, Michael Haneke, 2003), la Terra, matrigna, torna a mostrare all’umanità la sua insignificanza. La pandemia di Voronov, oltre che annichilire il corpo dell’uomo, distrugge ogni sua impalcatura morale e linguistica, riconducendo il mondo al suo originario stato silente. E l’immagine ad un bianco puro, esiziale.

Niccolò Buttigliero

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