“ZAHO ZAY” DI MAÉVA RANAÏVOJAONA E GEORG TILLER

Madagascar, terzo millennio. In una prigione dove i detenuti vivono ammassati l’uno sull’altro e hanno diritto a un’ora d’aria quotidiana in un cortile le cui condizioni di decoro sono al limite, lavora una guardia carceraria, una donna ossessionata dal ricordo del padre omicida, mai catturato e mai processato per i suoi delitti. Nel momento in cui uno dei nuovi detenuti del carcere afferma di averlo conosciuto, l’ossessione della ragazza si fa sempre più pressante.

Co-diretto dalla regista francese Maéva Ranaïvojaona e dall’austriaco Georg Tiller, Zaho Zay (che è la risposta dei detenuti malgasci al momento dell’appello) presenta una struttura formale e narrativa che lo mantiene in precario equilibrio sul confine tra documentario e film di finzione. La voce narrante della protagonista (che si vedrà apparire pochissime volte nel corso della pellicola) funge infatti sia da fil rouge per delineare la sua esperienza personale attraverso flashback e visioni che ne raccontano il trauma, sia da commento alle misere condizioni in cui i detenuti del carcere in cui lavora sono costretti a vivere.

Le due dimensioni, quella del ricordo della propria esperienza traumatica e quella del suo lavoro, sono più sovrapponibili di quanto si potrebbe immaginare: in primo luogo, per il desiderio della protagonista di vedere anche il viso del padre in mezzo a quello dei detenuti che ogni giorno si ritrova a sorvegliare, in modo che possa espiare la sua colpa e concederle quella pace interiore da tempo sospirata; in secondo luogo, perché il modo in cui i due registi decidono di rappresentare il mondo degradato del carcere e quello della fantasia e dei ricordi della ragazza è esattamente lo stesso: sguardo distaccato e oggettivo (proprio del documentario) su un mondo desolato e vuoto, dove ogni speranza di condurre una vita serena è lontana anni luce. Si crea dunque un cortocircuito narrativo in cui vita e sogno, reale e fittizio, si sovrappongono, non lasciando margine di comprensione allo spettatore, ma solo una raggelante e indecifrabile continuità.

Raggelante e indecifrabile appare anche il padre della protagonista che -negli scenari immaginati dalla giovane -, vaga senza meta nei disastrati territori del Madagascar armato solo di sei dadi con i quali decide la sorte degli sventurati che gli capitano a tiro. Lo sguardo onnisciente della narratrice cerca di capire quali siano le motivazioni che lo hanno portato a uccidere, scavalcando addirittura le barriere temporali e vedendolo bambino. Un tentativo di dialogo tra due anime ferite che non si concretizzerà mai sul piano della realtà, ma solo su quello del sogno. Ma, per fortuna, Ranaïvojaona e Tiller azzerano le distanze tra le due dimensioni come azzerano quelle tra fiction e documentario, e fanno sì che finalmente padre e figlia arrivino a toccarsi e ad abbracciarsi di nuovo. In modo tenero, struggente.

Alessandro Pomati

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