“DUNE” DI DENIS VILLENEUVE

Si esce da una proiezione di Dune storditi, subito smemorati. Di una vacanza durata tre ore e qualche millennio resta giusto una manciata di granelli di sabbia a infestarci i capelli.

Non c’è icasticità in Dune. Pure, dell’icasticità c’è la potenza, l’intensità, la pesantezza. Ogni stacco di montaggio è una gigantomachia, in cui il ruolo dei titani è assegnato alle inquadrature stesse. Ogni immagine è quella definitiva. O, quantomeno, si spaccia per tale. Percettivamente, d’altronde, fa poca differenza. Soprattutto per Hans Zimmer, il discrimine non sussiste: ogni momento è buono per bombardarci con i battaglioni sonici di cui è al comando. Questo farebbe di lui un prezioso alleato degli Harkonnen: “Non bombardare domani, se puoi bombardare oggi”. Una grande lezione di colonialismo applicato.

Non vi sono momenti prettamente iconici. Non v’è afflato rivoluzionario, né innovazione. Ma, soprattutto, su Arrakis non fa caldo. Eppure viene ripetuto più volte: si muore dal caldo. Le avanguardistiche tute distillanti, frutto dell’ingegneria Fremen, sacrificano la loro funzionalità sull’altare dell’estetica. Dell’aridità bollente di Arrakis rimane la fotografia di Greig Fraser (Zero Dark Thirty, dir. K. Bigelow, 2012; Rogue One: A Star Wars Story, dir. G. Edwards, 2016), sempre sulla soglia del bruciato, della definitiva cecità. Ma Chalamet sembra sudare solo nei momenti di delirio lisergico. È come se della Hollywood di The Robe (dir. H. Koster, 1953) o Cleopatra (dir. J. L. Mankievicz, 1963) sopravvivessero l’apparato scenografico, la magniloquenza stilistica, ma non quella portata ideologica-pedagogica che insufflava in quei giganteschi kolossal – già nati nel segno della morte – un’anima. Un’anima, ovviamente, artificiale. Si fa quel che (non) si può. Del tanto vociferato calore rimangono l’eco, la ridondanza. La pelle: asciuttissima. Tutt’intorno massacri e deserto.

A scaldare e scandire il film le apparizioni di Zendaya, sempre colta in pose ammalianti/abbacinanti, sempre pronta a voltarsi verso il pubblico e a distruggere una già esile quarta parete ormai anacronistico retaggio dei boomer-Harkonnen che ancora credono nella grammatica. Speriamo sia lei a condurci nella psichedelia pura del prossimo agognato capitolo. Per ora godiamoci questo mastodontico, reboante riverbero.

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