“LINGUI” DI MAHAMAT-SALEH HAROUN

In lignua ciadiana, la parola “Lingui” indica il precetto di convivenza armonica tra i membri di una comunità. Non è specificato da quanti membri tale comunità debba essere costituita, e l’armonia che regola la loro convivenza può essere spezzata da fattori di vario tipo. Nel caso di Amina (Achouackh Abakar), venditrice ambulante di cesti ricavati da reti metalliche, e di sua figlia Maria (Rihane Khalil Ario) si tratta della gravidanza indesiderata di quest’ultima, che potrebbe potenzialmente distruggere le loro esistenze. Da una parte il terrore di subire l’ostracismo della comunità islamica conservatrice di cui fanno parte, dall’altra la prospettiva ancora più spaventosa di far abortire la ragazza. Nonostante l’apparente impossibilità di portare a compimento una simile impresa, Maria è determinata a non tenere il bambino e Amina non potrà non starle accanto.

Presentato in Concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes e riproposto Fuori Concorso al TFF39, Lingui di Mahamat-Saleh Haroun chiama in discussione diversi elementi ma si concentra soprattutto sul dissidio vissuto da Amina – donna profondamente religiosa ma a sua volta ragazza madre – di fronte alla volontà della figlia di ricorrere all’aborto, e sulla la rabbia della giovane Maria, che comincia a nutrire per il genere maschile (rappresentato da Haroun come un agglomerato di animali ansimanti, “guardoni”, volgari e moralisti) un odio viscerale. Il conflitto tra le due finisce per diventare un collante potentissimo, che permetterà loro di superare le difficoltà derivanti dalla gravidanza e anche di spezzare il legame con la società patriarcale che le opprime.

Haroun realizza la sua messa in scena lavorando ora su inquadrature fisse, eleganti e ordinate, ora sul movimento creato dalla macchina a mano, proprio per simboleggiare la furia e la quiete dell’esperienza provata dalle due protagoniste che regalano una prova d’attore tanto sofferta quanto convincente. Pochi i momenti di sospensione contemplativa che vengono loro concessi e se gli avvenimenti che danno il via alla storia si concentrano nell’immediato inizio del film, lo sviluppo successivo non è mai abbozzato ma, al contrario, sempre reso con una estrema cura formale. Le due donne costantemente al centro della scena sono infatti sempre poste al margine estremo del quadro, a riprova della totale mancanza di appigli che sia la comunità chiusa sia la metropoli caotica e afosa, offrono loro.

Nonostante la loro condizione sottomessa e la situazione apparentemente senza via d’uscita, il film si conclude con la speranza di un riscatto non solo per le protagoniste ma per il genere femminile tutto, dimostrando la possibilità di conquistare una posizione di “potere all’ombra del potere” all’interno della comunità ritrovandosi, finalmente, al centro della scena (e dell’inquadratura).

Alessandro Pomati

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