“ALONERS” DI HONG SEONG-EUN

Impiegata modello nel call center di una compagnia di carte di credito, Jina (Gong Seung-yeon) è una ragazza schiva e riservata, saldamente ancorata alle proprie abitudini, al placido susseguirsi di luoghi e gesti che scandiscono le sue giornate, divise tra il suo piccolo appartamento di ringhiera e il luogo di lavoro.

Il ristretto perimetro della stanza da letto in cui dorme e mangia, così come l’angusta postazione recintata da pannelli di plexiglas in ufficio, sono infatti gli unici spazi in cui riesce a sentirsi a suo agio, nuclei rassicuranti attraverso i quali cerca di isolarsi dal mondo esterno. Entrambi i contesti si rivelano però permeabili e l’incursione di due persone nella sua vita creano delle piccole crepe nella bolla che aveva tentato di costruirsi: un nuovo inquilino, Seong-hun (Seo Hyun-woo), a seguito della morte del precedente dirimpettaio e Sujin (Jeong Da-eun as), giovane stagista che si trova a dover formare. L’osservazione attenta e rispettosa della sua esistenza alienata diviene così lo spunto – come il titolo lascia presagire – per una riflessione sulla solitudine, scelta e insieme subita, e sulla invisibile condizione di afflizione che essa comporta. Nel fare ciò Sung-Eun Hong sceglie di adottare un approccio minimale che si limita a seguire a distanza le azioni della sua protagonista, con uno stile di ripresa a sua volta distaccato ma efficace nel far entrare lo spettatore nel meccanismo di estraniamento dalla realtà esperito da Jina, reso anche attraverso le immagini insistite degli apparecchi elettronici di cui si circonda.

Che siano le cuffie e il computer che usa durante il lavoro, il cellulare e gli auricolari di quando si trova per strada o il televisore perennemente acceso a casa, è ininfluente, ciò che conta è distrarre la mente, è occupare il tempo e in tal senso la sigaretta che fuma durante la pausa e non riesce mai a finire, non è da meno. Da qui la potenza espressiva di quando Jina, in una delle scene finali del film, spegne il televisore e apre la finestra, venendo investita dalla luce proveniente da fuori, trasposizione visiva della voglia di riscuotersi dalla propria apatia.

Se la sua inadeguatezza nelle relazioni sociali appare evidente ed è centrale per tutto il film, il plurale del titolo non è altrettanto immediatamente individuabile e insinua il dubbio che anche gli altri personaggi provino, ognuno a modo proprio, un malessere. L’esordio al lungometraggio della regista sudcoreana – in Concorso al TFF39 – può essere quindi letto come denuncia di quello che, lungi dall’essere un caso isolato, appare un fenomeno pervasivo della età contemporanea.  

Valentina Velardi

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