“LUZ VIAJE OSCURO”, DI TIN DIRDAMAL, EVA CADENA

Un trip lungo 64 minuti e 1700 kilometri. Un viaggio in treno che oscilla tra luce e oscurità, scandagliando un Vietnam metafisico, passando per il diciassettesimo parallelo – il luogo più bombardato al mondo – e l’insediamento Ruc, popolo che alimenta il fuoco sacro il cui spegnimento comporterebbe l’estinzione del mondo.

Tin Dirdamal si muove sospinto dal desiderio di ricongiungersi con un amico d’infanzia smarritosi nella dimensione della follia, resosi misteriosamente reo di un omicidio. Lo accompagna sua figlia Eva (Cadena), co-autrice del film. Non ci è dato vedere punto di partenza e di arrivo, ma solo di abitare fuggevolmente la dimensione del viaggio. Tin ispeziona esclusivamente i vagoni, i volti dei passeggeri; Eva, a lui complementare, direziona il suo sguardo unicamente fuori dal finestrino, occupandosi del paesaggio. Padre/figlia. Interno/esterno. Congiuntamente, sottopongono lo spazio che si lasciano alle spalle a un processo di astrazione concreta simile a quello attivato da Apichatpong Weerasethakul in Sud sanaeha (2002). Lo spazio si spiritualizza, irrealizzandosi. Il rumorio costante delle rotaie sfuma in una composizione ambient, cullandoci – insieme al costante voice over di Eva – e scivolando nell’interiorità assoluta. Dirdamal non mira allo scioglimento dell’enigma, e anzi ne abita assuefatto i meandri. Le parole di Eva si de-narrativizzano, risolvendosi in lampi di poesia. A tratti, nero assoluto.

«Questo film è stato realizzato da un regista che presto smetterà di essere un regista per essere semplicemente un uomo. Quest’uomo un giorno morirà, come il film, a esattamente 730 giorni dopo la sua prima proiezione».

Luz Viaje Oscuro – secondo capitolo della tetralogia titolata «Light and the Beginning of Future» – è un anti-film, nella misura in cui la prassi di Tin Dirdamal è anti-cinema. I suoi sono film destinati all’oblio: Tin non anela all’istituzione di forme grafiche eterne, ricercando al contrario la caducità delle immagini. L’evanescenza, anziché l’infinita riproducibilità tecnica. Proprio perseguendo tale visione Dirdamal ha istituito il Dogma di Hanoi, un «voto di castità» assonante a quello di Vinterberg e von Trier. Un manifesto negativo, attraverso il quale Dirdamal espone la sua intenzione di «uccidere» i propri film a due anni dalla loro premiere, esibendo parimenti una totale apertura a qualsivoglia forma di plagio e riappropriazione altrui. Opponendosi criticamente a una logica di potere in cui l’eternità dominante della forma sopravvive al fluire igneo del tempo. Se un’opera resiste, ciò avviene nella metamorfosi di un’incessante rielaborazione anti-autoriale. Il resto viene dato in pasto alla notte.

Niccolò Buttigliero

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