“LEONORA ADDIO” DI PAOLO TAVIANI

1946. All’indomani della Liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo, una nicchia del cimitero del Verano a Roma viene aperta per estrarvi un’urna funeraria. Le ceneri in essa contenute sono del drammaturgo e romanziere Luigi Pirandello, che da dieci anni attendono di essere spostate nell’agrigentino, luogo di nascita dello scrittore. A un modesto impiegato comunale (Fabrizio Ferracane) viene affidato l’ingrato compito di affrontare il viaggio da Roma alla Sicilia per dar loro finalmente degna sepoltura.

E’ questa la premessa da cui parte Leonora addio, primo film realizzato da Paolo Taviani senza la collaborazione del fratello Vittorio (scomparso nel 2018 e a cui il film è dedicato); ma, a dispetto di essa, si trova poco o niente del dramma storico/agiografico nell’unica pellicola italiana entrata in Concorso all’ultima edizione del Festival di Berlino. Il focus del regista pisano pare essere in primo luogo l’immagine: ed è proprio sulle immagini di un cinegiornale dell’Istituto LUCE si apre il film, precisamente risalenti al momento della consegna del premio Nobel per la letteratura a Pirandello nel 1934. Estratti in bianco e nero a cui si succedono altre immagini in bianco e nero, questa volta realizzate prima manu da Taviani: le immagini di una finzione filmica avviluppata in quelle dei cinegiornali e dei film neorealisti utilizzate dal regista per raccontare, in un’unica volata, quella che è stata l’Italia dal 1936 al 1946, e che anche dopo continua a essere (e a esistere) solo in bianco e nero.

Un’Italia post-bellica che pare muoversi al ritmo di una novella dell’autore siciliano: la partenza dell’aereo su cui l’impiegato con le ceneri dovrebbe partire per raggiungere la Sicilia viene cancellata perché gli altri passeggeri non se la sentono di “fare il viaggio col morto”; la cassa in cui è inserita l’urna per il viaggio in treno viene usata come supporto per giocare a “tre sette col morto”; il tanto atteso funerale del Maestro viene scambiato dal popolino per il funerale di un nano, tanto è piccola la bara che contiene l’urna. Un’Italia che è Sicilia e una Sicilia che si fa specchio dell’Italia: un viaggio surreale che si propone anche di continuare l’operazione di adattamento cinematografico della poetica pirandelliana iniziata dai due fratelli con Kaos.

E proprio sull’adattamento dell’ultima novella scritta da Pirandello prima di morire, Il chiodo, si chiude il film: un racconto che parla della morte come un qualcosa di inevitabile, a cui anche la più piccola cosa concorre. Proprio in questo epilogo si legge la compiuta separazione e accettazione di Taviani del proprio lutto personale: un epilogo in cui, a dispetto del tema, finalmente esplodono i colori assenti dal grigio e “surreale reale” fino a poco prima mostrato.

Un cortocircuito di immagini e di punti di vista, di vita e di morte; un film d’altri tempi, di un’autorialità antica che ancora tanto ha da insegnare al presente; solo in questo modo si potrebbe definire Leonora addio, un cinema a cui ogni appassionato dovrebbe augurarsi di poter guardare solo come un “arrivederci”.

Alessandro Pomati

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