“C’MON C’MON” DI MIKE MILLS

America, oggi. Johnny (Joaquin Phoenix), affermato giornalista radiofonico, sta realizzando una serie di interviste a bambini e adolescenti sulla loro visione del futuro della Terra nell’inoltrato XXI secolo. Mentre si trova a Detroit, riceve una telefonata dalla sorella Vivian (Gaby Hoffman), che lo prega di recarsi da lei e dal suo figlioletto Jesse (Woody Norman) a Los Angeles a causa dell’improvvisa partenza del marito di lei, affetto da una grave forma di bipolarismo. Giunto sul posto, Johnny viene chiamato a occuparsi del bambino mentre lei parte per andare a occuparsi del marito a Oakland; ma anche le necessità lavorative vogliono la loro parte, e così Johnny decide di portare il nipote con sé “a spasso” per l’America per concludere il ciclo di interviste. Il viaggio avrà importanti ripercussioni su entrambi.

E’ il futuro l’oggetto di interesse di Johnny (un dolente e tenero Joaqun Phoenix) ma appare ben presto chiaro che ci sono altre due dimensioni temporali che lo tengono avvinto a livello personale: un passato dominato dalla morte della madre e di un figlio e da un burrascoso rapporto con la sorella, e un presente fatto di solitudine e lavoro, che probabilmente tenta di esorcizzare attraverso le interviste ai giovani e le loro voci incise su nastro, che “rimangono lì per sempre”, per dirla con le sue parole. E sarà probabilmente per questo che Mike Mills (al suo quarto lungometraggio in sedici anni di carriera registica) dà così importanza alle voci (ora over, ora off) dei suoi tre protagonisti, che riescono a creare veri e propri ponti tra le dimensioni temporali che riguardano le loro esistenze private e pubbliche. Ed è così che C’Mon C’Mon si configura come una vera e propria “polifonia metropolitana” fatta di parole pronunciate, urlate e sussurrate sullo sfondo delle grandi città americane, avvolte da un bianco e nero luminoso e insieme ovattato, pudico, firmato da uno dei grandi direttori della fotografia della Hollywood contemporanea, Robbie Ryan.

A una dimensione così astratta e poetica fa da perfetto contraltare il legame materiale che si viene a instaurare tra Johnny e il nipote Jesse (l’esordiente Woody Norman, una promessa da tenere d’occhio), basato su un rapporto eminentemente dialogico – in cui emerge a più riprese una sottaciuta dinamica padre/figlio – che viene incorniciato da Mills in inquadrature semplici, corredate da movimenti di macchina minimali, ma così belle da mozzare il fiato; come d’altronde è il film che, tutte insieme, vanno a comporre.

Alessandro Pomati

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