“LOVE LIFE” DI KŌJI FUKADA

Sono molti i linguaggi che si intersecano in Love Life: dal giapponese e il coreano con cui si esprimono i personaggi, a quello musicale, tra il canto popolare e il brano moderno di Akiko Yano che dona il titolo al film. Ma non solo: c’è quello della luce che attraverso il cd appeso sul balcone scaccia gli insetti e “porta fortuna”, il linguaggio dei gesti, con cui si esprime Park, l’ex marito di Taeko, e ancora quello del gioco Otello, in cui simmetria e bipolarismo offrono  un’importante metafora di vita degli stessi personaggi. Eppure è l’incomunicabilità a fare da collante al film.


L’intraducibilità dei sentimenti, l’impossibilità dell’incontro sono il motore vivo di una tragedia che è in realtà la vita stessa. Il lutto che sconvolge le vite dei protagonisti non è il vero dramma messo in scena dal regista Kōji Fukada che sembra invece raccontarci di una solitudine lisergica, che non può fare altro che relazionarsi ad altre solitudini. Un’incomunicabilità che passa prima di tutto attraverso lo sguardo: uno sguardo pleonastico e ritroso che non ha il coraggio di aprirsi al confronto. E se è vero che il linguaggio dei gesti ha un importante riscontro visivo e riscopre la possibilità di esprimersi attraverso lo spazio, Taeko realizzerà infine che neanche esso è un rifugio sicuro di sincerità. Anzi, può essere un modo per aumentare le distanze, per comunicare di nascosto, alle spalle di altri personaggi, pur quando evidenzia una complicità speciale.

La famiglia non tradizionale al centro del dramma di Love Life è un microcosmo isolato di cui osserviamo pietosamente le dinamiche sociali: esattamente come in una partita di Otello, le relazioni che scaturiscono dall’arrivo o dalla scomparsa di un elemento determinano il comportamento degli attori in gioco. La casa dei coniugi – un piccolo appartamento di un grande condominio di cui non vediamo nessun altro abitante – è  delimitata, perennemente frammentata: è lo spazio di elaborazione di un trauma che non può essere superato, sigillato da un’ultima partita lasciata a metà, rinviata a un “più tardi” eternamente sospeso. È uno spazio che relega spesso al fuoricampo interno all’inquadratura, che separa i suoi abitanti in cornici inamovibili di cartongesso colorato. Le stesse inquadrature, giocando su fissità e profondità di campo, mettono sotto scacco i personaggi che le abitano, incapaci di affrontare l’ingombrante assenza di quegli stessi ambienti, ma sembrano contemporaneamente suggerire un tentativo di ricostruzione e riadattamento a cui i protagonisti sono assolutamente ciechi.

Love Life sembra dirci che se una festa può trasformarsi in tragedia è anche vero il contrario, e ben lo esprime la sequenza finale che ci parla di rinascite. Alla fine si tratta solo di (ri)trovare un alfabeto con cui esprimersi, che sia il tentativo di comporre la scritta “congratulazioni” in una goffa disposizione di cartelli o l’inaspettato dono di un gatto che miagola fin troppo frequentemente. Insomma, la love life che sembrano vivere i personaggi è fatta di un amore intraducibile e malinconicamente solitario, eppure sufficientemente forte da poter colmare qualunque distanza.

Sara Longo

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