“HAM ON RYE”, DI TYLER TAORMINA

Immaginiamo di dilatare la sequenza finale di Blue Velvet (D. Lynch, 1986) fino a farne un lungometraggio. Il risultato sarebbe molto simile a Greener Grass (J. DeBoer, D. Luebbe, 2019), un deliro (apparentemente) nonsense, in cui i tropi e gli stilemi dell’olimpica produzione hollywoodiana si ritorcono su e contro se stessi, svelando la loro insincerità e artificiosità. Un film in cui una luce dalla potenza ipertrofica, più che farsi garante della leggibilità delle immagini che investe, le rende evanescenti. Una fotografia lobotomizzante, in cui ogni cosa è (troppo) illuminata. Sullo stesso terreno altamente ironico si muove Ham on Rye (2019), esordio di Tyler Taormina. Un’operazione consistente nel recupero di un’estetica cinematografico-televisiva estremamente familiare, che viene intinta in un liquido oscuro, che ne corrode le fondamenta. Un coming of age destrutturato in cui a essere raffigurata non è la metamorfosi pacifica dei teenagers in qualcosa d’altro, verso il terreno inesplorato ma prospetticamente accogliente dell’adulthood, quanto un processo di sostanziale annichilazione. Una carneficina color pastello.

Come i lynchani Lost Hyghway (1997) e Mulholland Drive (2001), anche Ham on Rye si dispiega binariamente, in due tranches a un tempo strettamente legate ma non comunicanti. La prima sezione, affine a Greener Grass (pur se più contenuta sul piano umoristico), è incentrata sui preparativi e sull’attesa del classico prom. Pura luce, intontimento. Nell’esplorare le luminose strade della provincia californiana, i segni d’inquietudine o scarto rispetto all’ordine vigente sono estremamente sporadici e, in ogni caso, ininfulenti. Lo sguardo di Hayley (H. Bodell), l’unico a mettere in discussione l’ambiente circostante, è incapace di intervenirvi attivamente.

La sequenza della festa, rappresentata da Taormina come un rituale ancestrale perfettamente coreografato, è seguita da una parata dei ragazzi che tornano a casa, permeati dalla rosea luce della golden hour. Camminando, vengono falcidiati uno ad uno dal nulla: scompaiono, senza motivo, divorati da un taglio di montaggio. Se in Picnic at Hanging Rock (P. Weir, 1975) la sparizione aveva i caratteri estatici di una vocazione divina, qui assistiamo a qualcosa di completamente diverso. A infiltrarsi nella struttura del coming of age sono le sparizioni inspiegabili e inquietanti di Antonioni, di cui si ricalca il finale di Blow-Up (1966). Hayley, che non aveva preso parte al ballo, pare essere l’unica superstite.

A seguire buio, vuoto. L’attesa di una risoluzione che non giungerà. Il film si incupisce tragicamente, vaga senza meta per le strade semideserte della cittadina: un ambiente ora connotato dalla perdita, dall’eco di un massacro. Ciò che si attendeva febbricitanti nella prima sezione dell’opera non era altro che questo: uno stanco ed esiziale trascinare se stessi nella notte. Lo iato temporale tra la sparizione e la lunga sequenza notturna potrebbe constare di qualche ora come di qualche anno: impossibile determinarlo con certezza. Forse, come in Lost Highway, siamo spettatori di un viaggio interdimensionale: la catabasi di Hayley alla ricerca dei compagni scomparsi.

Con Ham on Rye Taormina rielabora la tradizione cinematografica del coming of age ibridandola con una materia oscura e mortifera ma, al contempo, realizzando un’opera in cui pur senza negare l’iconografia hollywoodiana del caso – e, anzi, rielaborandola – la transizione generazionale viene descritta con il dovuto pessimismo, operando una fertile frizione tra sovraesposizione luministica e oscurità assoluta.

Niccolò Buttigliero

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