“Gone With the Wind” (“Via col vento”) di Victor Fleming

A settantacinque anni dall’uscita del film, nella sala due del Reposi viene presentata la nuovissima versione restaurata di Via col Vento in lingua originale. Veniamo subito informati che questa è la prima proiezione in Italia della nuova edizione e che il film dura 238 minuti, quattro ore senza intervallo. Un coro di bisbigli si solleva dalla sala, in molti scappano rapidamente in bagno, io corro a comprare un caffè americano doppio nel bar all’angolo.

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La sala è uno strano miscuglio di persone. Qualcuno il film l’ha già visto, per altri è una completa novità. “Meglio vederlo al cinema, perché a casa quattro ore non le reggo”, dice qualcuno. “Ma è davvero un polpettone romantico?” Ci sono vecchi affezionati, ormai giunti alla loro proiezione numero otto. Ci sono nonne e mamme con figlie e nipoti, pronte a passare il testimone di una pietra miliare del cinema alla generazione successiva. Ci sono ragazzi scettici, già convinti di trascorrere buona parte delle quattro ore in uno stato di torpore. Sicuramente l’impianto di riscaldamento della sala non aiuta. Veniamo fatti entrare con largo anticipo, e solo nella mezz’ora di attesa percepiamo un allarmante aumento della temperatura. L’aria diventa umida e tropicale e non fa presagire niente di buono. Imperterriti, ci sfiliamo giacconi e golf, ci installiamo con piccole scorte di cibo nascoste nelle borse, e siamo pronti per lasciarci trasportare nel profondo Sud.

È curioso (ri)vedere Via col vento a così breve distanza da 12 anni schiavo. Diventa difficile immergersi in quella bucolica rappresentazione degli stati del Sud. Il buonismo con cui vengono raccontati i rapporti schiavo-padrone fa sorridere e, almeno all’inizio, è piuttosto straniante. Ma in men che non si dica dimentichiamo ogni riferimento storico, perdiamo il senso critico e siamo pronti ad accettare qualsiasi improbabile vicenda pur di non uscire da quello stato di sospensione in cui il film riesce ancora benissimo a farci piombare. Settantacinque anni e non li dimostra: i nuovi colori sono più vividi che mai. I tramonti di Tara sono arancioni, rossi e rosa. Le silhouettes dei personaggi si stagliano sullo sfondo con le larghe gonne sollevate dal vento in immagini di portata epica. La sottogonna di mammy è rossa come il peccato. Gli occhi di Scarlett verdissimi e imperlati di lacrime.

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Il mio ricordo di questo film era piuttosto distorto. L’avevo catalogato sotto il genere epopea storica e appassionata storia d’amore. Invece, con grande soddisfazione, ho riscoperto il suo lato brillante e spiritoso. È costellato da battutine sottili, ammiccamenti, giochi di sguardi così espressivi da far sussultare la sala. Spesso gli spettatori si sono sciolti in risate incredule, altre volte in sospiri e addirittura in cori di dissenso quando Scarlett, già moglie di Rhett, guardava languidamente la foto di Ashley.

Il film non soggiace ad alcuna definizione. Passato alla storia come la più epica delle storie d’amore, è anche un grandioso affresco di un periodo storico che riesce a raccontare lo sforzo di una nazione attraverso il dramma personale. Tutt’oggi si discute sulla moralità di Scarlett, sul “francamente, me ne infischio” di Rhett, e nessuno riesce a dare una spiegazione coerente del successo imperituro di questo kolossal hollywoodiano. Il pubblico di tutte le generazioni si divide. C’è chi condanna Scarlett, pronta a tutto pur di raggiungere i suoi scopi; c’è chi esalta la sua forza d’animo e determinazione, tratti moderni di una donna incredibilmente emancipata; ci sono i fans accaniti di Rhett Butler, che ancora adesso non si capacitano di come una donna possa anche solo pensare a Leslie Howard con Clark Gable a portata di matrimonio.

Questo film non ha confini: nella durata, nella storia, nel successo, nella fama. È quasi inafferrabile nel suo sfuggire ad ogni definizione, eppure ecco che periodicamente dà nuova prova di sé, riuscendo a riempire le sale anche in un piovoso Sabato pomeriggio di Novembre, facendo commuovere, amare, odiare.

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