“Hong Kong Trilogy” di Christopher Doyle

Nonostante il titolo impegnativo, Hong Kong Trilogy di Christopher Doyle è un unico film, e nemmeno particolarmente lungo. Un documentario dedicato dal noto Direttore della fotografia australiano alla sua amata patria d’adozione. Dopo avere lavorato con registi di tutto il mondo, tra cui Wong kar-wai (quasi l’intera filmografia), Gus Van Sant, M. Night Shyamalan e Neil Jordan, Doyle si lancia nella picaresca impresa di raccontare la città cinese da un punto di vista completamente diverso dal solito e in completa autonomia.

Il film è diviso in tre parti, una per ogni generazione. Gli studenti sono osservati mentre vanno a scuola, si incontrano su una panchina o trascorrono il tempo libero. Facciamo la conoscenza del giovane rapper Beat Box, del piccolo Vodka e dell’anziano gruppo di partecipanti allo Speed Dating Tour. Vediamo poi immagini del Democracy Camp, organizzato da studenti in protesta nel centro della città, del Muro di Lennon, dove ognuno poteva esprimere il proprio desiderio di pace, e del Senses Open Bar, nel quale i giovani del quartiere si riuniscono per socializzare.

Doyle tende a gelare l’immagine in grandi quadri che stentano a prendere vita. Una buona idea è quella di montare le parole di alcuni protagonisti su immagini di loro stessi mentre camminano, quasi a voler far sentire i loro pensieri più intimi. Un’altra trovata è il coinvolgimento dell’attore Kevin Sherlock, molto noto nel Sudest asiatico e dotato di una verve comica invidiabile, il quale funge da alter ego del regista ad Hong Kong, arrivando dal cielo come un corpo alieno.

A dirla tutta, non è molto chiaro cosa Doyle volesse dire esattamente con il film. L’impianto narrativo appare un po’ incerto: le persone incontrate non sembrano lasciare davvero un segno forte sulle immagini, e i luoghi visitati potrebbero essere tranquillamente altri senza che il film ne risenta in modo particolare. Quindi l’impressione complessiva è che il desiderio di realizzare qualcosa di bello ci sia sempre stato e che le intenzioni fossero delle migliori, ma ciò che non convince è il risultato finale: la struttura con la quale Doyle ha scelto di sviluppare il soggetto di partenza, comunque piuttosto interessante, traballa. Paradossalmente, considerati gli anni di esperienza dell’autore sul campo, si percepisce come una sorta di immaturità creativa. Peccato per l’occasione sprecata.

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