“Su campi avversi” di Andrea Fenoglio e Matteo Tortone

ella lingua italiana il termine “campo” può significare molte cose. In primo luogo, sta ad indicare uno spazio limitato di terreno destinato alla coltivazione. Quello spazio che Martino Giletta, contadino di Saluzzo, si è visto espropriare dallo Stato allo scopo di accogliervi i numerosi stranieri in cerca di lavoro come raccoglitori nei frutteti della regione. Ecco il secondo luogo di significazione: campo di tende. Naturalmente il produttore e regista del documentario Su campi avversi Andrea Fenoglio – al suo primo lungometraggio, realizzato in collaborazione con Matteo Tortone – ha potuto trovare questa drammatica testimonianza partendo proprio dai migranti stagionali di origine subsahariana presenti sul territorio.

«Negli ultimi anni hanno sostituito quelli che provenivano dall’Europa dell’Est, che a loro volta avevano sostituito i migranti dal Sud Italia». Un movimento ciclico, per così dire, l’eterno ripetersi di un evento sempre uguale in cui gli unici a cambiare sono i protagonisti. La situazione è molto critica e gli autori non hanno esitato a raccontarla attraverso un film bicefalo, le cui facce sono inevitabilmente speculari: sconfitti sono i circa 500 uomini accolti dalla Caritas nella tendopoli, costretti a stare lontano da casa, e sconfitto è Martino, imprenditore locale che dopo un periodo difficile di violenta protesta contro i soprusi della burocrazia ha deciso di abbandonare moglie e figli ormai grandi per isolarsi con i suoi cani in un piccolo campo (di nuovo questa parola) circondato da un recinto.

Ma un “campo” è, tecnicamente, anche il giaciglio che Martino si prepara quando raggiunge alture appartate in montagna con un libro in mano e passa la notte sotto le stelle per cambiare un po’ aria. Insomma, potremmo non venirne più fuori. Tra l’altro, cercare di indovinare tutti i possibili riferimenti che l’ambiguo titolo del film suggerisce non diverte poi molto. Piuttosto, quando facciamo la conoscenza di Martino finiamo col restare affascinati dalla dimessa vanità con cui si mostra appena prende un pizzico di confidenza con la macchina da presa, senza tralasciare spiegazioni dettagliate riguardo le sue abitudini fisiologiche e appassionate riflessioni sui popoli antichi.
A questo punto la metafora militare, che struttura la stessa pellicola in due parti, appare didascalica e fuorviante. Perché questi campi sarebbero avversi? Chi è il nemico? E il nemico di chi? È pur vero che Martino aveva combattuto la sua battaglia personale contro i migranti e contro lo Stato che li aveva messi sulle sue terre. Ma è anche vero che lo stesso contadino oggi ammette di aver lottato invano, di non aver compreso il senso profondo di quella battaglia e di averla evidentemente persa, come ha perso la famiglia. Quando sarebbe stato forse più importante trovare un dialogo con quegli uomini che vorrebbero rivedere la famiglia e che sono invece prigionieri di una scelta necessaria…

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La doppia regia del film – ça va sans dire – non permette la completa uniformità stilistica. Eppure lo sguardo complessivamente distaccato, l’utilizzo dei droni per le riprese aeree, il tono della narrazione e l’elemento metaforico di cui sopra, riescono comunque a legare le due parti del documentario senza troppa fatica. La prima, affidata a Tortone e intitolata appunto Il campo, mostra alcuni di quei migranti stagionali, ripresi all’interno delle loro tende, talvolta velati e per giunta di spalle, altre volte di fronte, in primo piano, mentre parlano al telefono con i famigliari nella lingua del paese d’origine (soprattutto Mali, Burkina Faso e Costa D’Avorio) o in francese. Altre  volte ancora li vediamo riflessi su un vetro mentre, riuniti in una zona comune, commentano la situazione economica italiana con una lucidità e una competenza inaspettate. La fotografia li colora di un lieve seppiato, imponendo un’atmosfera estetizzante un po’ stucchevole e alla lunga difficile da giustificare. Peccato, perché la volontà di non riprenderli mai chiaramente ma sempre di traverso, di nascosto o di riflesso sulla carta, funziona meravigliosamente: cosa sappiamo veramente di queste persone? Le abbiamo mai guardate bene? Abbiamo mai voluto guardarle?

Per fortuna la seconda parte, diretta da Fenoglio e intitolata Il recinto, esplora la quotidianità di Martino con occhio più coinvolto e di fatto più responsabile, senza lasciarsi distrarre da volgari divagazioni visive. Lascia invece spazio alla personalità dell’imprenditore espropriato, all’uomo solo consapevole dell’errore, deluso e frustrato da un presente che fatica a comprendere ma che racconta ancora con la naturale cadenza del suo dialetto. E allora anche la lingua diventa un campo di confronto. Perché possiamo vivere la globalizzazione con tutto l’entusiasmo possibile, ma se non abbattiamo i recinti e non rinunciamo alle nostre lingue, non sapremo mai guardare davvero gli altri e noi stessi.

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