“Sully” di Clint Eastwood

A quasi dieci anni di distanza da Gran Torino, Clint Eastwood torna a utilizzare un mezzo di trasporto come veicolo di concetti, storie, valori. Là era una leggendaria Ford, simbolo di identità nazionale e anti-razzismo, qui è il volo di linea Airsways 1549 pilotato dal comandante Chelsey Sullenberger. O più semplicemente, e teneramente, un “Cactus” nei cieli di New York lanciato da Sully come fosse un aquilone.

Tom Hanks in "Sully" di Clint Eastwood
Tom Hanks in “Sully” di Clint Eastwood

L’elemento umano nell’eterna lotta alla macchina, alla rigidità di un protocollo, alla fallibile infallibilità dei numeri è il filo che lega sempre l’aquilone alla sua guida, e il film ai suoi spettatori. I quali scambiano letteralmente le poltrone ove siedono coi sedili dell’aereo che il 15 gennaio 2009 vide negli occhi la tragedia, e poi si ritrovò incredibilmente cullato dalle acque del fiume Hudson, illeso. Un miracolo di freddezza nervosa, coraggio, spregiudicatezza e fiducia nel propri feelings, in ciò che ognuno di noi sente di dover fare anche se qualunque voce esterna indica strade diverse.

Di tutto questo diede prova Sully optando per l’ammaraggio, e dà prova Tom Hanks vestendo i suoi panni, testimonial perfetto per il cinema emozionale dell’ultimo Clint. Solo una personalità integerrima e incorruttibile può restare salda all’impatto con uno stormo di uccelli in picchiata: quale metafora migliore, oggi, per la società U.S.A, dove puoi diventare da eroe a impostore al passaggio di una notte, basta che qualcuno lo dica e molti ci credano. La pericolosità di cavalcare l’opinione pubblica con tesi diffamanti, cieche alla verità e interessate a una parziale interpretazione dei fatti è un altro topos del film, che racconta molto più di ciò che narra.

Ne emerge il ritratto delicato di un capitano esperto e altruista, che a dispetto delle altissime responsabilità rimane umile, innamorato, semplicemente “uomo”. Magari Clint Eastwood anche davanti alla macchina da presa vedesse leader così.

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