“Al tishkechi oti – Don’t Forget Me” di Ram Nehari

In un centro di riabilitazione alimentare di Tel Aviv ogni mattina un’infermiera pone le stesse domande alle giovani pazienti anoressiche: «Mestruazioni?» Tra tanti no, ecco un sì: è quello di Tom. Intanto Neil è appena arrivato in città da Amsterdam e sta acquistando una tuba. Ha grandi progetti: incontrare l’amico d’infanzia e seguirlo con la band fino a Berlino.

Il ragazzo e la ragazza si incontrano, e Neil aiuta Tom a scappare dall’ospedale: scopriranno così di essere molto più simili di quanto immaginano. Simili tra loro, ma non simili a coloro che li circondano: a casa di Tom assistiamo alla lite con i genitori. Questi la minacciano di riportarla all’ospedale, così i due si danno alla fuga. Sono i padroni della città, corrono per le strade, Tom è un vulcano in eruzione, si fa toccare il seno dai passanti, assapora la libertà dopo tempo e sembra che niente e nessuno possa fermarla. Incontra le amiche di un tempo, unite tutte dalla stessa malattia, e scopre che una di loro ha perso la vita. Neil si rende conto del turbine emotivo che attraversa Tom e delle conseguenze che esso porterà: «Vuoi morire anche tu?». Quando si trovano uno di fronte all’altra è impossibile continuare a mentire, entrambi sanno che quella notte non basterà a risolvere i loro problemi, nemmeno la promessa di un amore.

Quella che ci racconta il regista israeliano Ram Nahar non è la consueta vicenda drammatica che unisce due personaggi bizzarri, non è nemmeno una commedia romantica con happy ending. Ci si può aspettare una storia cupa, ma non è così: nel momento in cui la scena sembra raggiungere il solito cliché, la tensione emotiva viene spezzata da un momento comico (basti pensare alla sorta di preghiera delle amiche al “Dio della magrezza”): dramma e leggerezza si amalgamano in un perfetto equilibrio. Le ragazze dell’ospedale nascondono il proprio vomito in sacchetti di plastica, il cibo sotto i vestiti: il tema delle malattia non prende mai il sopravvento sulla trama, e l’anoressia è raccontata senza alcun tabù, con obiettività. Il regista è infatti solito collaborare con persone che si trovano in istituti, sa quindi come lavorare sui personaggi, anche se, ammette in conferenza stampa, gran parte del merito è da attribuire agli attori, perfettamente calati nei propri ruoli: Nitsan Leila Shavit (Neil) prende come ispirazione la storia di un amico; Nitai Gvirtz (Tom) lavora sul proprio passato.

Ma Nuhar non si ferma a questo, perché il suo film muove anche una critica alla società israeliana e ai modelli e alle regole che impone. Per esempio attraverso le immagini di modelli perfetti propinati dalla televisione (non solo quelli delle sfilate trasmessi nella tv dell’ospedale ma anche quelli seguiti dal fratellino di Tom che si trova a sollevare sacchi d’acqua o il proprio letto per assomigliare ad un wrestler). E, ancora, rappresentando il conflitto con  i genitori. Due età a confronto, quella adulta, bigotta, convinta che i tedeschi siano ancora quelli di Hitler, capaci di bruciare bambini ascoltando musica classica; in contrapposizione, la generazione di Tom e Neil. Ragazzi che sembrano vivere in una sorta di favola sospesa,  e vogliono fuggire in un luogo in cui non possano sentirsi giudicati, in mezzo ad altri out cast.

Nessuno di noi è un leone, siamo soprattutto «cavalli sfigati» (come ricorda la canzone finale): tutti siamo sbagliati, abbiamo problemi ai quali cerchiamo di porre fine. Il segreto è prenderne coscienza, ma senza prendersi troppo sul serio. Don’t Forget Me è soprattutto un invito a essere se stessi.

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