“DAPHNE” DI PETER MACKIE BURNS

Nel XVI secolo le donne con i capelli rossi erano credute streghe: siamo nel 2017, i sortilegi oscuri sono un un ricordo ormai lontano, ma Daphne è riuscita comunque a stregare il suo pubblico.

Daphne ha 31 anni ma preferisce che non le venga ricordato, vive nel cuore di Londra, lavora in un ristorante rinomato come aiuto chef, non ha una relazione stabile ma ha una vita sessuale decisamente attiva, ama gli alcolici, qualche “spinello” nel corso della giornata, ha un pessimo rapporto con la madre (malata di cancro) e vive con un serpente di nome Scratch. Una trama molto semplice, una personalità complessa.

La forza dell’ultimo film diretto da Peter Mackie Burns (e scritto da Nico Mensinga) risiede tutta nella sceneggiatura e nella figura dell’attrice protagonista, Emily Beecham. Il regista dichiara in conferenza stampa di essere arrivato a tracciare un profilo completo del personaggio solo dopo la scelta dell’attrice, creando una perfetta sinergia tra il modello femminile immaginato e quello rappresentato da Emily Beecham. Nessuna ispirazione letteraria, solo riferimenti alla realtà e alla propria esperienza personale: anche se Daphne sembra una figura piuttosto atipica per il nostro decennio (odia la tecnologia, i social, il suo telefono è un pezzo da museo, preferisce  Žižek alle serie tv), il suo carattere così frammentato e imprevedibile rispecchia quello di buona parte dei giovani londinesi.

Quello di Daphne è l’animo di una ventenne bloccato nel corpo di una trentenne: sembra essere uscita da un brano dei Sex Pistols, ha uno spirito anarchico, sangue ribelle, è istintiva, fugge dalle proprie responsabilità, non sa gestire i rapporti umani, disprezza l’amore, è cinica, a tratti bipolare, diffida di coloro che non la pensano come lei, è un’intellettuale (laureata in filosofia) a metà. Insomma, una “stronza” da manuale per la quale rimane impossibile provare antipatia grazie alla sagace ironia di ogni suo pensiero («Ogni volta che uso la cocaina penso a Freud quindi all’amore»).

 

La sua è una vita perfetta solo in superficie: è insoddisfatta, alla costante ricerca di qualcosa, della cosiddetta “botta di vita”, di un’emozione forte. E la scossa sembra arrivare in una notte qualunque, quando entra in un minimarket per comprare tabacco e paracetamolo per alleviare i postumi di una sbronza: un uomo fa irruzione e accoltella il cassiere. Sarà compito di Daphne soccorrerlo e chiamare l’ambulanza. Un evento apparentemente di poca importanza (inizialmente non si preoccuperà nemmeno di sapere se l’uomo è ancora vivo), che lei stessa farà finta di ignorare, ma che la porterà a guardare se stessa da un altro punto di vista.

Questa vicenda la costringerà a rivalutare se stessa: Daphne è cosciente di star mandando a rotoli la propria vita. La maschera nichilista cade, e si sforza così di rimettere insieme qualche pezzo, partendo dalle sedute dallo psicologo, al recupero del rapporto con la madre, fino alla cena con la famiglia del proprietario del minimarket.

Il ritratto di Daphne riflette non solo quello della sua generazione, smarrita, senza certezze, disorientata, indecisa anche sul cocktail da scegliere al bar, ma quello di ogni individuo, come se fosse una tappa obbligatoria “perdere la bussola”. Sarà la madre sul finale ad ammettere quella verità che accomuna entrambe: «Voglio molto più di questo».

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