“TAURUNUM BOY” DI DUSAN GRUBIN E JELENA MAKSIMOVIC

Da troppo tempo, Belgrado e la Serbia sono ostaggio di una lettura superficiale e approssimativa, condizionata dalle tensioni aperte da una storia irrequieta e tormentata. Ne consegue spesso il ritratto di un Paese in condizioni di isolamento, anche in alcuni contesti artistici e culturali.

La realtà è invece quella di un Paese giovane e dinamico in cui l’iniziativa culturale e l’apertura alle attività annesse sono in continua crescita. Gli autori di Taurunum boy, Dusan Grubin ed Jelena Maksimovic, giovani registi appena diplomati alla Scuola di Cinema, sono rappresentanti di questo fervore artistico. Inevitabilmente, in quanto osservatori autentici e interni, il loro lavoro di resa di un contesto – un quartiere della cintura di Belgrado, Zemun – è scevro da semplificazioni e preconcetti su una città spesso dipinta come difficile, se non pericolosa.

L’abilità degli autori è proprio di usare, come porta d’accesso alla storia, uno degli stereotipi più consolidati, ossia la ricerca d’identità  – che spesso passa per l’esercizio dell’intimidazione e dello scontro – durante una partita di calcio. Taurunum boy si apre con la macchina da presa che insegue il gruppetto di ragazzi protagonista della storia, mentre entra e si colloca nel settore più caldo di uno stadio. Siamo nel mezzo di quel tifo che spesso in Serbia si è mischiato a rivendicazioni politiche fino a sfociare in episodi di violenza.  Lo spettatore, convinto di stare per assistere ad un film su un gruppo di ultras di una squadra di Belgrado, dovrà però presto ricredersi. Taurunum boy offre, infatti, uno sguardo pulito e dolce sulla maturazione di un gruppo di adolescenti ma non è nemmeno interessato a fornire il ritratto di un quartiere di Belgrado, ritenuto difficile e con forte presenza malavitosa (come chiarito dagli stessi registi presenti in sala). I ragazzi vivono una fase comune a ogni coetaneo indipendentemente dalla provenienza, con le sue contraddizioni e i suoi turbamenti: musica hip pop, gite noiose e gioia per la fine della scuola, innamoramenti, compleanni, 1 vs 1 a basket, bravate notturne e litigi con i genitori. Insomma, qualcosa di spontaneo e genuino nella crescita e nella presa di coscienza delle dinamiche sociali.

La regia è accurata, predilige l’utilizzo di teleobiettivi e uno sguardo -spesso lontano dalle situazioni vissute dai ragazzi, senza tuttavia risultare distaccato – dolcemente rispettoso, mai voyeuristico o invadente. E’ doveroso un accenno (approfondito anche dagli autori nell’incontro, al termine della proiezione) alla sequenza del concerto rap, in cui la regia si fa più presente, e al magistrale long take nel dialogo domestico fra uno dei ragazzi e il padre, sul pessimo andamento scolastico. Un esempio della naturalezza e spontaneità che sono le chiavi di lettura di un film delicato e sorprendente.

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