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“A TALE OF FILIPINO VIOLENCE” BY LAV DIAZ

Article by: Alessandro Pomati

Translation by: Ana Paula Da Silva Costa

The Philippines, 1973. The Monzon family, one of the country’s most prominent industrial dynasties, is facing a dramatic transition. Their elderly patriarch, Servando Monzon III, is dying from pancreatic cancer and his heir, his grandson Servando VI, is tasked with running the family sugar plantations under Fernando Marcos bloody repressive regime. Their destiny will eventually cross that of a young serial murderer sentenced to death.

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Lav Diaz’s intention seems clear right from the opening credits: to make, as he himself states, a “novel-film” from the family saga of the same name by Filipino author Ricardo Lee.

Presented out of competition at the 79th annual Venice International Film Festival, the film takes up many literary topoi: the high-ranking lineage of the family that is centrepiece of the story, a historical background more or less influencing the choices of the protagonists, a tormented love between members of different classes and family secrets that will be revealed as the narrative goes on. Diaz elaborates all this through a style that has made him popular among film buffs all over the world over: black and white photography, fixed shots, and dilated time frames.

Yet, for the most part, it is the story rather than the way in which it is told that dominates the scene. A tale of ‘Filipino violence’ indeed, focusing on the bloody events in which the Monzons played a role over the centuries, and that do not seem to find an end. Diaz’s direction, although immediately recognisable, is almost invisible as it is put at the service of the story, its linearity, the melodramatic tone of the events embodied by characters and density of happenings.

However, in certain moments – ‘few’, actually, considering its seven hours of duration – the personality of the director emerges in silent, intimate, and nocturnal contemplative moments, poetic, fresh and almost unrelated to the narration, but above all in his attention to the history of his own country, the true protagonist. Through what at first glance would appear to be post-production oversights, such as sudden dips and rises in the audio, out-of-sync, rustling microphones on clothes, Diaz gives substance to the cracks in history letting them creep in amidst the rigorous images. And it is precisely these ‘out-of-tune’ sounds that make of this film an echo of the true lives of those men and women who inspired this tale.

“A TALE OF FILIPINO VIOLENCE” DI LAV DIAZ

Isole Filippine, 1973. I Monzon, una delle dinastie industriali più in vista del Paese, si trova di fronte a un passaggio drammatico: l’anziano patriarca, Servando Monzon III, è in punto di morte a causa di un tumore al pancreas, e il suo erede, il nipote Servando VI, ha il compito di guidare le piantagioni di zucchero di famiglia durante il sanguinoso periodo di repressione vissuto dal Paese sotto la dittatura di Fernando Marcos. Il destino della famiglia finirà con l’incrociarsi con quello di un giovane pluriomicida condannato a morte.

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L’intento di Lav Diaz appare chiaro fin dai titoli di testa: realizzare, come lui stesso sottolinea, un “romanzo-film” a partire dall’omonima opera letteraria della saga familiare firmata dall’autore filippino Ricardo Lee. E. Il film, (presentato fuori concorso alla 79sima edizione della Mostra del Cinema di Venezia) riprende infatti tutti gli elementi letterari: la stirpe di alto rango al centro del racconto, lo sfondo storico più o meno influente sulle scelte dei protagonisti, l’amore contrastato tra esponenti di classi diverse, i segreti di famiglia che verranno svelati con il procedere della narrazione. Ma Diaz li elabora attraverso lo stile che lo ha reso riconoscibile agli occhi della cinefilia mondiale: fotografia in bianco e nero, inquadrature fisse, tempi dilatati.

Eppure, per buona parte, a farla da padrone è la storia, piuttosto che il modo in cui viene raccontata; una storia di “violenza filippina”, appunto, che si concentra sulle sanguinose vicende di cui si è resa protagonista la famiglia Monzon nel corso dei secoli e che non sembrano trovare un epilogo. In tutto questo, la regia di Diaz, per quanto perfettamente riconoscibile, si configura quasi come invisibile mettendosi al servizio della storia che vuole raccontare, della linearità della narrazione, dei toni melodrammatici delle vicende incarnate dai personaggi, della densità degli avvenimenti.

In alcuni momenti (in verità “pochi” se rapportati alle sette ore di durata), emerge tuttavia la personalità del metteur en scène e il suo respiro: i suoi silenzi, i suoi momenti contemplativi intimi e notturni, poetici, ariosi e quasi estranei alla narrazione; e, soprattutto, l’attenzione per la Storia del suo Paese, la vera protagonista. Attraverso quelle che a prima vista sembrerebbero sviste della post-produzione, come improvvisi abbassamenti e innalzamenti dell’audio, fuori sincrono, fruscii di microfoni sui vestiti, Diaz dà corpo alle crepe della Storia e lascia che si insinuino in mezzo alle immagini rigorose. E sono proprio questi suoni “stonati” a far sentire nel film l’eco della vita vera degli uomini e delle donne che hanno ispirato il racconto.

Alessandro Pomati

“Hele sa hiwagang hapis” (“A Lullaby to the Sorrowful Mystery”) by Lav Diaz

Versione inglese a cura del Master in Traduzione per il Cinema, la Televisione e l’Editoria Multimediale

Article by: Andrea Bagnasco

Translation by: Silvia Cometti, Miriam Todesco

When watching an eight-hour movie, the story starts vanishing in one’s mind, what one remembers of the past gets blurred, preventing him from linking all the points, what one may think about the future becomes little by little unsure and one finds himself lost, tightly attached to the present and to this monumental film by Lav Diaz.

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“Hele sa hiwagang hapis” (“A Lullaby to the Sorrowful Mystery”) di Lav Diaz

Quando guardi un film di 8 ore tutto è strano, dopo un po’ la storia svanisce dalla tua testa, quello che ricordavi del passato è annebbiato impedendoti di ricollegare tutti i punti, quello che puoi pensare del futuro diventa poco a poco incerto e ti ritrovi perso e aggrappato al presente e a questo monumentale film di Lav Diaz.

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