Tutti gli articoli di Fabrizio Spagna

“THE LIGHTHOUSE” DI ROBERT EGGERS

Non ricordo chi disse che bastano i primi tre shot per capire se un film sarà bello o meno. Tre shot. S’intende che la regola non funziona sempre – se no che regola sarebbe?- ma in tempi come questi, dove la produzione cinematografica si è così così saldamente consolidata nei suoi ritmi da essere più praticata della scrittura stessa, ecco, una buona regia equivale a una scrittura pulita, addomesticata quanto basta per non essere sbagliata. Tutti sanno scrivere; e tutti i buoni registi sanno girare tre buoni shot iniziali. Puliti, impeccabili, disponibili allo sguardo di lettori/spettatori ammaestrati. Per questo la regola non funziona sempre: capitano film sapientemente girati dall’industria, editrice di questo palinsesto consolidato dell’arte dell’intrattenimento video, che nonostante i tre, quattro, cento buoni shot, rimangono film patetici, inutili, o utili solo a distrarre. Avevo quindi rinunciato alla regola: troppo poco affidabile perché non mi aiutava a capire se un film meritasse di essere visto o meno. Poi ho rivisto i primi tre shot di The Lighthouse una ventina di volte e la regola ha riacquistato valore.

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“SYNONYMES” DI NADAV LAPID

Passato in sordina al TFF (e non aiutato forse dall’essere stato proiettato nella saletta più piccola a disposizione del Festival, la 5 del Reposi), Synonymes è un film grande, di quelli che dopo la visione covano prepotenti e gonfiano nel tempo, avvinghiandosi alla memoria dello spettatore. Film feroce, saturnino, ingrato, delicato, caustico, frustrato – e via ancora elencando la lunga serie di sinonimi che, nel titolo e nella locandina, segnalano le aggettivazioni possibili per descrivere l’umore malmostoso che anima il protagonista e il suo viaggio alla ricerca di una nuova identità.

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“OHONG VILLAGE” DI LUKE LUNGYIN LIM

Opera prima in concorso al TFF37, Ohong Village è il racconto minuto di un nucleo famigliare taiwanese. Minuto nello svolgimento, composto nella tecnica, frettoloso nell’assemblaggio di storia e immagini, Ohong Village fa più bella figura come documentario che come film a soggetto. Storia di un ritorno a casa di un giovane taiwanese, cervello in fuga, accolto nella sua immobile Taiwan dalla famiglia e dall’amico di sempre. Storia di menzogne, di simboli (fiacchi), e di suoni di incredibile potenza espressiva.

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“LA GOMERA” DI CORNELIU PORUMBOIU

I fini intenditori a Cannes l’hanno bollato come giochino fine a se stesso, come pasticciaccio brutto o esperimento formale non all’altezza delle sue ambizioni. Meno sonora, più pacata, la schiera degli entusiasti, che alla kermesse francese pure erano presenti e l’hanno applaudito tanto quanto i detrattori lo hanno fischiato. Il nuovo film del regista rumeno un pasticcio, diciamolo subito, lo è per davvero: postmoderno, però, e non ruffiano.

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“LA MAFIA NON E’ PIU’ QUELLA DI UNA VOLTA” DI FRANCO MARESCO

A Venezia ha vinto il Premio speciale della giuria, ma Maresco a ritirare il premio non c’era. Se ne stava a casa, depresso e sfiduciato, a sfogliare i messaggi di congratulazioni che gli arrivavano sul cellulare. Tra i messaggi, come ha raccontato lui stesso a Emiliano Morreale in un’intervista pubblicata su La Repubblica, ce n’era uno del suo vecchio compagno di giochi Daniele Ciprì – mittente inizialmente non riconosciuto perché, sfiduciato e depresso, Maresco sul cellulare i numeri non li salva.

L’aneddoto, per quanto strano possa sembrare, ci aiuta a capire il film premiato a Venezia e ora visionabile nelle poche sale italiane che, incomprensibilmente, all’arte complessa ancora credono. Ci aiuta perché la vicenda, fosse anche poco sincera, permette di dare spessore emotivo a un film che a primo impatto non racconta altro che il disincanto del suo regista. L’aneddoto non solo, insomma, ci conferma l’idea di un regista nichilista e disperato – e d’altronde chi lo conosce, questo già lo sa -, ma scopre le ragioni profonde di un film la cui produzione, altrimenti, non sarebbe punto giustificata.

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“CLIMAX” DI GASPAR NOE’

Ogni discorso su Noé si nutre dei pareri contrastanti che lo animano: c’è chi lo odia e chi lo ama. Tant’è che Climax, uscito l’anno scorso a Cannes – alla Quinzaine, non al Palais – prima di arrivare da noi ha già avuto il tempo di tracciare il solco tra i denigratori e i sostenitori. E così, da un lato, stando alla doxa luciferina, si fa una gran fatica a capire i meriti di questa sua quinta fatica cinematografica; e dall’altro, volendo invece dar retta ai suoi adoranti seguaci, il film è il vertice della sua filmografia, l’esempio lampante di un genio cinico ed estatico.

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“SELFIE” DI AGOSTINO FERRENTE

Napoli è ormai città cinematograficamente mitologica. La genesi del mito la si deve, è chiaro, a Gomorra. Pietra miliare della metamorfosi napoletana, della sua trasformazione da città mediterranea, farsesca e fiera, a metropoli in mano alla camorra e al degrado, Gomorra sembra aver ridisegnato connotati e simbologia del capoluogo campano: e là dove c’eran Totò e Peppino a far ridere sotto al sole, oggi ci sono ragazzini con la pistola tra le mani. Così, dopo qualche anno in sordina, forse passato a riflettere sugli effetti nocivi di questa trasfigurazione immaginifica (si pensi all’apologia del sindaco De Magistris: “Napoli non è Gomorra. È la città della cultura”), nell’ultimo lustro diversi registi si son fatti coraggio e hanno ripreso il discorso iniziato da Garrone (via Roberto Saviano) e proseguito sulle cronache: per ultimi, oltre all’omonima trasposizione televisiva del capolavoro garroniano, La paranza dei bambini di Giovannesi e questo Selfie firmato Agostino Ferrente.

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“ORO VERDE – C’ERA UNA VOLTA IN COLOMBIA” di ciro guerra e cristina gallego

Ricorda insieme Shakespeare, Il Padrino e la tragedia greca questo Oro verde: c’era una volta in Colombia. Ma leviamoci subito il sassolino dalla scarpa: nonostante le pur ammissibili analogie tra questo film e quello di Leone cui si rimanda nella traduzione italiana, la nostra distribuzione si è macchiata per l’ennesima volta di tradimento nei confronti del titolo originale, Birds of Passage, che vorrebbe raccontare, più che banalmente il plot, metaforicamente lo spirito dei personaggi coinvolti nella vicenda: uccelli di passaggio, per l’appunto, e non gangster del contrabbando.

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“GRIZZLY MAN” DI WERNER HERZOG

Parlare di Werner Herzog è facile e difficile allo stesso tempo. Facile perché il cineasta tedesco è tra i più grandi registi contemporanei: uomo affascinante e integerrimo, su Herzog si può dire e raccontare molto, tanto che la sua persona appare ai cinefili più giovani come un personaggio memorabile di un film, più che come l’uomo dietro la macchina da presa . D’altronde è stato lo stesso Herzog a spingere verso questa presentazione di sé come figura iconica e leggendaria, rappresentandosi nei suoi propri film come un Caronte delle anime mostruose, apparendo cioè nella messinscena dei suoi documentari accanto, più che di fronte, ai personaggi quasi mitologici che ha saputo far parlare. Eppure, nonostante questa proliferazione dei discorsi possibili su Herzog e, quindi, nonostante la facilità con cui si può pescare dal cilindro della personalità e dalla storia cinematografica del regista un discorso, diciamo così, “valido” ecco, nonostante tutto, parlare di Werner Herzog risulta estremamente difficile e complesso.

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POWELL E PRESSBURGER: LA RETROSPETTIVA

Due tipi curiosi, Powell e Pressburger. Il primo (classe 1905) inizia a lavorare appena ventenne sui set di Hitchcock come fotografo, poi  diventa regista di successo con film di propaganda bellica tutt’affatto scontati e infine – con l’uscita di Peeping Tom (1960), cult metacinematografico che verrà riscoperto da Coppola e Scorsese – saluta la carriera, stroncata da una critica troppo sorniona e insicura per accogliere la sua pioneristica riflessione sul mezzo; il secondo (nato nel 1902), scrittore e produttore ungherese, parte dall’UFA berlinese e, in fuga dai nazisti, arriva a vincere l’Oscar per la migliore sceneggiatura con un film – pensa un po’ – sui nazisti in fuga. Continua la lettura di POWELL E PRESSBURGER: LA RETROSPETTIVA

LUCIANO TOVOLI: L’USO DEL TECHNICOLOR E I MAESTRI POWELL E PRESSBURGER

Ogni anno il Torino Film Festival in collaborazione con il DAMS dell’Università degli Studi di Torino organizza un incontro con una figura rilevante della storia della cinematografia italiana. Quest’anno è stata la volta di uno dei più illustri direttori della fotografia: Luciano Tovoli. Presenta Emanuela Martini e al tavolo insieme a Tovoli, siedono Franco Prono e Piercesare Stagni. La sala è gremita e la masterclass non tradisce le attese. Continua la lettura di LUCIANO TOVOLI: L’USO DEL TECHNICOLOR E I MAESTRI POWELL E PRESSBURGER

“UNTHINKABLE” DI CRAZY PICTURES

Il pregio di Unthinkable, blockbuster a basso costo ambientato nella Svezia contemporanea, prodotto dal collettivo Crazy Pictures con un finanziamento di soli 1,8 milioni di euro – di cui la metà raccolti in crowdfunding -, sta proprio nella resa spettacolare nonostante la scarsità di mezzi. Peccato che la grande padronanza tecnica non possa correggere le incongruenze di una sceneggiatura difettosa e a tratti involontariamente grottesca. Continua la lettura di “UNTHINKABLE” DI CRAZY PICTURES

“TEMPORADA” DI ANDRÉ NOVAIS OLIVEIRA

Che belle immagini nitide, questo Temporada, e che colori sani, finalmente sciolti dai vincoli estetici e luministici che tanto cinema imbrigliano. Carioca, sì, nell’animo, con una vitalità e una leggerezza che fin dalle prime immagini si sente e si comprende, mentre si sale, sotto il sole, per i viali sui colli di Contagem, metropoli meridionale di quell’enorme stato contraddittorio che è oggi il Brasile. Continua la lettura di “TEMPORADA” DI ANDRÉ NOVAIS OLIVEIRA

“DOVLATOV” DI ALEKSEY GERMAN JR.

Tra il biopic e l’invenzione, Dovlatov è la storia di un uomo che, nel suo vagabondare, intercetta storie di corpi e volti che gli sono incidentali – storie di resistenza (e non di dissidenza) contro il potere e i suoi dispositivi banali, in questo caso soprattutto editoriali. Perché Dovlatov, scrittore e giornalista nella Russia sovietica degli anni ’70, non riesce a farsi pubblicare, colpevole di inopportuna ironia e troppa fraintendibile sincerità. Accanto a lui le storie di quella gran folla di personaggi che popola gli spazi dell’ambiziosissima messa in scena che ricostruisce magnificamente un’epoca. Ed è questa galassia di volti russi e di corpi nomadi che costellano il tragitto esistenziale di Dovlatov, la forza viva del film.

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