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MEZZOGIORNO DI FUOCO – RETROSPETTIVA SU JOHN WAYNE

Lo studioso Yves Kovacs individuava in John Wayne la quint’essenza della Hollywood classica. Un attore che in ogni ruolo riflette una componente monolitica, burbera e un po’ disillusa, ma anche un’aura mitica che, nel corso degli anni, ha reso Wayne il simbolo del cinema americano. I personaggi interpretati da Duke si eclissano dietro il suo sguardo glaciale e il perentorio tono di voce capace di mettere fine a qualsiasi discussione; ma soprattutto invecchiano assieme a lui, si confondono con la sua vita fino ad alterarne l’identità. Sarà proprio l’attore ad ammettere che in ogni film il suo ruolo è quello di interpretare John Wayne, senza curarsi troppo del personaggio. La sua immagine si è costruita sulla ripetizione dei codici di un unico genere e pensare a John Wayne oggi vuol dire pensare al cinema Western stesso.

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La seconda (e ultima) edizione del Torino Film Festival non poteva che concludersi con una retrospettiva su John Wayne, attore molto amato dal direttore Della Casa che ha deciso di riproporre in sala alcuni dei titoli più apprezzati nella sua infinita carriera. In ordine cronologico troviamo il capolavoro di Raul Walsh Il grande sentiero (The Big Trail) del 1930: il primo ruolo importante della carriera di Wayne, ma anche grande flop al botteghino che relegherà il genere western alle produzioni di serie B prima di essere “salvato” da John Ford con Ombre Rosse (Stagecoach, 1939). Successivamente troviamo Il fiume rosso (Red River, 1948), uno degli splendidi western girati dalla volpe di Hollywood Howard Hawks. Sarebbe scontato elencare i temi, ormai codificati, che si possono ritrovare nel repertorio hawksiano come l’amicizia virile che sfocia in una velata omosessualità, la morale della tenacia e della dignità. Per apprezzare Il fiume rosso basterebbe soffermarsi su una delle più belle panoramiche della storia del cinema, in cui Wayne scruta la vallata per poi esclamare «take’em to Missouri Matt!».

In una retrospettiva su Wayne non può naturalmente fare a meno di John Ford, il padre del cinema Western e grande amico dell’attore: il TFF porta sugli schermi due film del maestro, I cavalieri del Nord Ovest (She Wore a Yellow Ribbon, 1949) e I tre della Croce del Sud (Donovan’s Reef, 1963). Il primo fa parte della trilogia sulla cavalleria statunitense, mentre il secondo è un’opera piuttosto sconosciuta del repertorio di Wayne e di Ford, realizzata – si dice – come pretesto per una vacanza nei mari del Sud. In seguito, troviamo Hondo di John Farrow del 1953, ispirato a un racconto dello scrittore Louis L’Amour ed esordio sul grande schermo di Geraldine Page; una divertente commedia di Henry Hathaway, Pugni pupe e pepite (North to Alaska, 1960) dove Wayne dà il meglio di sé come attore comico tra i ghiacci dell’Alaska; e infine l’ultima fatica dell’attore, ovvero il western crepuscolare di Don Siegel, Il pistolero (The Shootist, 1976).

Sospeso tra tradizione e ironia, il film di Siegel si apre con un omaggio (quasi elegiaco) all’attore, con una carrellata di scene dei vecchi film interpretati da Wayne, montate ad hoc per sottolineare le abilità da pistolero del suo personaggio J.B. Books. Un film che si misura dunque con la storia del cinema ma anche con la realtà dal momento che tutto il film ruota attorno al tumore di Books, la stessa malattia che colpisce Wayne in quegli anni. Il pistolero e l’attore sono prossimi alla fine, e non c’è un addio più consono se non una sparatoria in un saloon (tutta girata in campi lunghi) dove Wayne riscrive il suo destino, “aggiustando” la realtà attraverso la finzione e regalandosi un’uscita di scena maestosa, degna del suo personaggio: nel finale non si lascia vincere dalla malattia, ma viene ucciso con un colpo di pistola.

Luca Giardino

“NON RIATTACCARE” DI MANFREDI LUCIBELLO

“Ho preso la macchina, poi ti spiego”. Un messaggio diretto e conciso che Irene (Barbara Ronchi) lascia al suo attuale ragazzo prima di abbandonare l’appartamento e dirigersi frettolosamente verso il veicolo. In una notte primaverile, nel bel mezzo della pandemia, la donna è costretta a guidare da Roma verso Santa Marinella nel tentativo di impedire al suo ex fidanzato Pietro (Claudio Santamaria) di togliersi la vita. Le autostrade desolate fanno da sfondo all’odissea di Irene, al suo viaggio contro il tempo, mentre la linea telefonica lascia in sospeso la flebile voce del suo vecchio amante.

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Una tensione irrefrenabile si consolida gradualmente in “Non Riattaccare” – opera seconda di Manfredi Lucibello e unico film italiano in concorso al Torino Film Festival. Una suspense che si sviluppa lentamente e rimane costante, senza mai sfociare in un climax; resta saldamente legata alla fragile quotidianità di una coppia che, come molte altre, ha dovuto affrontare la solitudine e la distanza causate dal lockdown. Tuttavia, tra Irene e Pietro si apre un abisso: per mostrarcelo Lucibello, e il suo co-sceneggiatore Jacopo Del Giudice, si servono del volto stanco e sofferente di Barbara Ronchi, capace di sostenere da solo il peso dell’intera narrazione.

In un’intervista il regista ha dichiarato che il viaggio di Irene non ha forse l’obiettivo di salvare Pietro, quanto piuttosto di salvare sé stessa. Una considerazione confermata dal modo in cui la macchina da presa mette costantemente alla prova il corpo della donna, seguendolo quasi morbosamente sin dai primissimi istanti del film. Irene può salvarsi ma deve farlo da sola. Pietro è soltanto una voce mentre il martirio di lei è concreto, così come lo sono tutti gli ostacoli che li separano in quei 60 km di strada, in un mondo completamente immobilizzato. Con questo nuovo thriller, Lucibello conferma nuovamente la sua abilità di narratore, e riesce ad ingannarci con un falso dialogo tra due ex amanti, che si rivela invece essere uno straziante monologo tra una donna e i fantasmi del suo passato.

Luca Giardino

articolo pubblicato su “la Repubblica” il 27 novembre 2023

“L’ÎLE” DI DAMIEN MANIVEL

L’ultima sera di Rosa (Rosa Berder) prima di partire per Montréal è una festa indimenticabile. La ragazza deve abbandonare tutti i suoi amici e migrare in Canada, forse per diventare una grande ballerina. Ma gli addii non sono mai facili e la nottata offre a Rosa la possibilità di fermare il tempo per assaporare ogni sorso di birra, ogni tiro di sigaretta e il tepore dell’ultimo giorno d’estate. Il luogo di ritrovo è una grossa roccia in mezzo ad una spiaggia, affettuosamente chiamata “l’isola”; qui i ragazzi allestiscono una sorta di rituale d’addio, fatto di sfide alcoliche, battaglie di alghe e bagni in mare. Rosa vive la sua ultima serata come se fosse veramente l’ultima della sua vita senza mai annegare nei ricordi, ma piuttosto cercando di ricrearne di nuovi che possano vivere in eterno.

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“THE GAMER” DI JESSE JOKINEN E PETRI LUUKKAINEN

Il grande schermo ha da sempre dedicato attenzione allo spietato mondo dell’agonismo fisico e sportivo più tradizionale e, tra le opere recenti, possiamo ricordate Il cigno nero (Black Swan, 2010) di Darren Aronofsky oppure Tonya (I, Tonya, 2017) di Craig Gillespie. Negli ultimi anni l’interesse verso la competizione sportiva ha cominciato a includere categorie “anomale”, come ad esempio gli e-sports. In Italia un significativo passo avanti nella rappresentazione di questo mondo è stato fatto dal documentario Game of The Year del 2021 diretto da Alessandro Redaelli, forse il primo vero appassionato tributo al panorama videoludico nostrano.

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MEZZOGIORNO DI FUOCO: RETROSPETTIVA SUI B-WESTERNS

La quarantesima edizione del TFF si ricopre di stelle e strisce nella nuova retrospettiva sul cinema western: la direzione del festival – Steve Della Casa è un grande appassionato del genere – non poteva che omaggiare alcune pellicole di questo filone fondamentale nella produzione statunitense dal 1938 fino al 1960.

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I film in questione, però, non hanno nulla che vedere con i grandi autori del western hollywoodiano, in questo caso sostituiti da abili mestieranti come Joseph H. Lewis e Alfred “Al” Green, capisaldi dell’industria e prolifici creatori di b-movies. Anche sul piano tematico si è voluto cercare un filo rosso che collegasse i diversi titoli della sezione: la stravaganza e l’unicità sono i due termini che hanno guidato un’accurata selezione delle pellicole più sconosciute e dimenticate del cinema americano per eccellenza.

Shotgun (1955) di L. Selander.

Ma che cos’e il cinema western senza i suoi eroi? A volte “cavalieri senza macchia e senza paura”, altre invece uomini lacerati da un oscuro passato. In Mezzogiorno di Fuoco gli eroi non sono nient’altro che anomali personaggi in balia della narrazione, che li trasporta – volenti o nolenti – verso nuove e dolorose frontiere: è il caso di Henry Carson (Van Johnson) nel rurale The Romance of Rosy Ridge (1947) di R. Rowland dove non ci viene presentato un cowboy irrequieto, ma un romantico e misterioso vagabondo che si installerà nella casa del sudista Gill MacBean (Thomas Mitchell), il padre-padrone della bella Lissy (Janet Leigh).

Lo stesso discorso si potrebbe fare per Four Faces West (1948) diretto da Al Green dove troviamo Joel McCrea nei panni di Ross McEwan, un bandito dal cuore d’oro in fuga dal famigerato – ma più innocuo rispetto alla sua classica raffigurazione – sceriffo Pat Garrett. Per tutta la durata del film non viene sparato neanche un colpo: non è necessario, dal momento che il nostro fuorilegge è in realtà un uomo buono e generoso che regala i soldi rubati al padre in difficoltà economica e aiuta una bisognosa famiglia messicana afflitta dalla difterite.

Four Faces West (1948) di Alfred Green.

A compensare l’assenza di duelli nel film di Green ci pensa Terror in a Texas Town (1958) di J. H. Lewis dove invece le pistole sono cariche e sparano, ma quando le armi da fuoco non bastano ecco che spuntano arpioni e fucine degne di un romanzo di Melville nell’anomalo scontro finale tra il pistolero monco Johnny Crale (Nedrick Young) e il vendicativo George Hansen (Sterling Hayden).

La sezione dedicata ai B-westerns ha riservato delle curiose riscoperte e coraggiosi revival come The Terror of Tiny Town (1938) di S. Newfield, un musical interamente interpretato da attori nani, ma anche pellicole più sobrie in Technicolor come Coroner Creek (1948) di R. Enright e Shotgun (1955) di L. Selander. Insomma, Mezzogiorno di Fuoco ha condotto gli spettatori in un atipico viaggio tra i sentieri del festival offrendo agli amanti del genere degli appuntamenti imperdibili con la sala e con le storie più insolite della frontiera americana.

Luca Giardino

“PALM TREES AND POWER LINES” DI JAMIE DACK

Don’t murder me, ok?”. Con queste parole Lea (Lily McInerny), una giovane ragazza diciassettenne, risponde alla proposta di Tom (Jonathan Tucker), un uomo di trentacinque anni, di accompagnarla a casa in macchina dopo una brutta serata con gli amici. Il tono con cui Lea pronuncia la frase è ironico, ma il suo sguardo perso nel vuoto cela una reticenza di fondo. Forse, in quel breve istante di spensierata interdizione è racchiuso il nucleo di Palm Trees and Power Lines, opera prima di Jamie Dack, già vincitrice del premio alla miglior regia al Sundance Film Festival 2022 e presentata in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

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Il film presenta uno scorcio della vita di Lea durante le ultime settimane estive prima che ricominci la scuola: la sua quotidianità nella suburbia americana l’annoia, i suoi amici sono infantili e immaturi e il rapporto con la madre Sandra (Gretchen Mol) – unico membro della sua famiglia – è sempre più teso. L’incontro con Tom scuote la ragazza e le offre una via di fuga dalla sua realtà; Lea è affascinata da un uomo più grande ma allo stesso tempo non si lascia completamente andare. Tom si comporta come il fidanzato perfetto: la corteggia, le fa regali e la porta al mare, ma cela un lato oscuro che Lea decide di ignorare e che la porterà a fare i conti con un doloroso trauma nel finale.

L’intento politico del film è chiaro ma non offusca né la forma né il contenuto. L’opera, infatti, si misura con questioni spigolose come l’adescamento minorile e la difficile realtà di molte famiglie della periferia americana – proprio al personaggio di Lea sono delegate alcune delle battute più gravose come, rivolta alla madre: “Certa gente non dovrebbe avere il diritto di fare figli” – e, allo stesso tempo, offre delle soluzioni formali piuttosto insolite del dramma coming of age. Jamie Dack, infatti, rinuncia a virtuosismi stilistici per offrire una regia sobria e senza sbavature, dimostrando di voler comunicare una necessità, anzi un’urgenza nel narrare determinati eventi piuttosto che soffermarsi sulla componente visiva. Lo sguardo pulito e statico della cinepresa di Dack non solo offre nuove possibilità alla rappresentazione del genere, ma mette in mostra l’originalità del lavoro della regista e il coraggio con cui afferma una personale e autentica visione già a partire dalla sua prima opera.

Luca Giardino

“NIMIC” DI YORGOS LANTHIMOS

Dopo il grande successo di The Lobster (2015) e The Killing of a Sacred Deer (2017), Yorgos Lanthimos aveva spiazzato pubblico e critica portando sul grande schermo The Favourite (2018), un film che a detta di molti non rispecchia a pieno il suo inconfondibile stile. Con l’uscita del cortometraggio Nimic nel 2019, il regista greco sembra invece ritornare in sintonia con le sue opere precedenti, allontanando gli assurdi sospetti intorno al presunto “talento bruciato” o all’autore caduto nella “trappola hollywoodiana” colpevole di averlo privato della sua originalità stilistica.

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“JULY RAIN” DI MARLEN KHUTSIEV – “UN BRINDISI GEORGIANO” DI GIULIANO FRATINI

«Non c’è nulla di mistico [nel mio cinema], capitemi, ha semplicemente a che fare con la memoria, con la conservazione della memoria degli altri e cosa fare con il passato».

Queste parole rivelano la modestia di un grande artista nell’inseguire un obiettivo preciso: scolpire con le immagini un mondo ormai irreversibilmente trasformato. La cinepresa si rivela essere lo strumento perfetto per scrutare la vita di un paese che, a piccoli passi, dimentica il suo recente passato e comincia a riscoprire le gioie di tempi ben più lontani: un arcaico amore per l’esistenza che ritrova spazio sulla pellicola cinematografica. Marcel Khutsiev, regista di punta di quella “nuova onda” nata in Unione Sovietica dopo la morte di Stalin, rivive a sua volta sugli schermi del Torino Film Festival nella sezione “Back to Life” con il suo lungometraggio Iyulskiy dozhd (July Rain) del 1967.

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“LUCKY” DI NATASHA KERMANI – “REGRET” DI SANTIAGO MENGHINI

“Go it alone” (“cavarsela da soli”): questo è il titolo che la giovane scrittrice May Ryer (Bea Grant) sceglie per il suo più recente manuale d’auto-aiuto. I suoi libri non hanno un grande riscontro e gli affari vanno a rilento, ma questo risulta essere l’ultimo dei problemi per May. Un inquietante uomo mascherato irrompe ogni notte nella casa in cui la scrittrice vive con il marito, tormentando la donna fino allo stremo delle forze. Nessuno, però, sembra dare rilevanza a questi avvenimenti, né il marito – accondiscendente e insensibile – né la polizia, abbandonando May al suo destino.

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“THE EVENING HOUR” DI BRADEN KING

Una lenta panoramica accarezza la vastità del paesaggio montano dell’Appalachia; in lontananza una flebile esplosione destabilizza per pochi secondi la pace di quella visione paradisiaca. Tutto tace. Si apre così The Evening Hour, il nuovo lungometraggio di Braden King che, dopo nove anni dal successo di Here (2011), ritorna adattando per il grande schermo l’omonimo romanzo di Carter Sickels. Nella sua nuova opera, King privilegia uno sguardo più realistico sulla vita della periferia americana, depotenziando i classici stilemi narrativi del noir ed instillando, al contempo, una profonda riflessione sul destino di un’intera generazione: giovani disillusi nei confronti di un futuro inesistente, costretti a subire la pressione di un mondo che non concede alcuna via di fuga, se non quella di annegare nell’abisso della droga e della violenza.

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