Tutti gli articoli di Sara Longo

“ARTURO A LOS 30” DI MARTÌN SHANLY

Quanta sofferenza c’è nel “diventare grandi”? Se nel suo primo lungometraggio Juana a los 12 (2014), il regista argentino Martín Shanly aveva esplorato le incertezze di una ragazza che non si sente all’altezza delle aspettative degli adulti, in Arturo a los 30 il protagonista (interpretato dallo stesso Shanly, anche co-sceneggiatore del film) è un adulto che non riesce a sentirsi tale. Arturo incarna il millenial perfetto: sempre sotto farmaci, senza un lavoro stabile e per questo costretto a casa dei genitori, incapace di creare relazioni o di gestire nuove responsabilità. Va avanti così fino a quando, il giorno del matrimonio di un’amica, sarà costretto a confrontarsi con la propria esistenza. 

Attraverso la scrittura del suo diario, Arturo si muove avanti e indietro nella storia della sua vita cercando di darle ordine, mescolando passato e presente secondo una logica associativa più che cronologica. Un flashback dopo l’altro iniziamo a comprendere che c’è qualcosa di profondamente irrisolto nel suo percorso di crescita che gli impedisce di varcare la soglia dell’età adulta. Come il pipistrello imprigionato che sbatte contro le vetrate di una chiesa in una delle prime scene del film, Arturo è sospeso in una perenne adolescenza, mentre chi gli sta intorno continua a crescere. È incapace di affrontare i traumi della propria vita, metaforicamente rappresentati dal dito rotto che non si preoccupa di curare. Chiuso nelle proprie insicurezze, è incostante e sfuggente come Julie di The Worst Person in The World (Joachim Trier, 2021), ma porta su di sé anche un’inadeguatezza che ci ricorda Nanni Moretti, da cui eredita la struttura del cinema-diario e la passione per le abbuffate solitarie.

Sarà forse l’inizio della pandemia – quando “non esiste più un modo giusto di vivere la vita” – a permettere ad Arturo di uscire dalla sua immobilità. Tra speranze disattese e traumi rimossi, Martín Shanly riesce a costruire in maniera efficace il ritratto di una generazione grazie a un personaggio che, nella sua goffaggine e tenerezza, sa farci sorridere.

Articolo pubblicato su La Repubblica il 30/11/2023

Sara Longo

“ROMA BLUES” DI GIANLUCA MANZETTI

Nell’onirico mondo di Al (Francesco Gheghi), la cosa più importante è farsi il letto ogni mattina. Questo perché realizzare il primo compito della giornata lo motiverà a raggiungere gli obiettivi successivi. Prendendo spunto da quanto disse l’Ammiraglio McRaven nel suo celebre discorso, Al aggiunge che è in un letto ben fatto che nascono bei sogni. Peccato che non ci siano coperte da rimboccare nella calda e asfissiante Roma in cui vive.

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“LOS COLONOS” DI FELIPE GÁLVEZ

«Che cosa accade a un Paese quando un’intera pagina della sua storia viene cancellata?». Da qui parte l’esordio nel lungometraggio di Felipe Gálvez Los colonos, crudo e raffinato film che attraverso il viaggio di tre uomini incaricati dal latifondista Jose Menéndez di trovare un percorso “sicuro” – cioè “ripulito” dagli indios – fino alle coste dell’Atlantico, porta l’attenzione sul genocidio degli indigeni Selk’nam perpetrato alle soglie del XX secolo e per lungo tempo oscurato dalla storia ufficiale del Cile.

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“HOME INVASION” DI GRAEME ARNFIELD

A partire da una serie di incubi ricorrenti in cui la propria dimora viene invasa, alcuni personaggi della storia recente perfezionano i propri dispositivi di sicurezza per accertarsi che nessuno entri in casa senza permesso. Tutto sembra ridursi a questo: poter dormire sonni tranquilli. Invece, la tecnologia che avrebbe dovuto tenerli al sicuro li soggioga e li tiene svegli, nell’ansia perenne che qualcuno possa improvvisamente rivelarsi davanti allo spioncino. Una perenne angoscia verso l’esterno che sfocia nel voyeurismo più estremo.


In anteprima nazionale al TOHorror Film Fest, Home invasion di Graeme Arnfield indaga le correlazioni tra tecnologia e paranoia ossessiva attraverso la storia del campanello che da dispositivo di comunicazione con l’esterno si trasforma in strumento di controllo, confine tra se stessi e gli altri, custode di una soglia terrificante, guardiano silenzioso e onnipresente dalle reminiscenze orwelliane. Ultimo progresso tecnologico, Ring è un videocitofono che invia notifiche al proprietario in tempo reale, consente di parlare con i visitatori e di aprire il portone anche a distanza. In realtà, Ring è un sistema altamente codificato in grado di raccogliere costantemente dati sulle abitazioni nei quali viene installato: la tecnologia dei campanelli diventa allora un’attività di controllo profondamente compenetrata, direttamente connessa al cloud e condivisibile sui propri account, facilmente violabile anche da polizia e tribunali in nome della “pubblica sicurezza”.

“Ring non è un’azienda di campanelli: è un’azienda di dati che vende campanelli”.

Continuamente invaso da didascalie esplicative con titoli sensazionalistici che ben ricalcano gli effetti della nevrosi a cui il controllo tecnologico pare averci condannato, Home invasion mischia filmati di sicurezza domestici, clip estratte da internet e immagini d’archivio, ma affonda a piene mani anche nella tradizione cinematografica in cui l’home invasion è un tema ricorrente fin da Griffith (Lonely Villa, 1909), mettendo in comunicazione l’attuale cultura del terrore all’audiovisivo che così fortemente la alimenta. Ogni immagine rimane vincolata e costretta all’interno di uno spioncino grazie al fish-eye con cui è costruito tutto il film, espediente estetico che costringe gli spettatori a prendere coscienza della loro complicità verso il sistema della sorveglianza. Come gli abitanti delle case americane selezionate da Arnfield, anche noi osserviamo il mondo esterno al sicuro nelle nostre poltrone, mentre il videocitofono registra animali incuriositi fuori dalla porta, corrieri negligenti che lanciano i pacchi in consegna e inquietanti performance davanti (e per) la camera.

Della psicosi collettiva che attanaglia l’intera popolazione non è esente neanche lo stesso regista Graeme Arnfield che ne è, anzi, la prima vittima: Home invasion è stato infatti diretto, sceneggiato e montato senza uscire di casa. Interamente “made in bed”, dimostra fino a che punto può arrivare l’alienazione privata.

Sara Longo

“JEANNE DU BARRY” DI MAïWENN

Inaugurata lunedì 17 luglio e in programma fino a fine mese, la Rassegna Cannes mon Amour propone un’ampia selezione di film dell’ultimo festival di Cannes in alcuni cinema di Roma, Milano, Torino, Bologna e Firenze. La prima serata è stata inaugurata dal film che ha aperto la 76° edizione del festival di Cannes, Jeanne du Barry, storia di una cortigiana di umili origini che si aggiudicò il titolo di ultima favorita del Re di Francia Luigi XV.

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“URBAN MYTHS” DI WON-KI HONG

La 40° edizione del Torino Film Festival apre le porte alle nuove tendenze del cinema horror attraverso una sezione competitiva: “Crazies” – sentito omaggio all’omonimo film cult di George A. Romero – si pone come obiettivo l’esplorazione di nuovi linguaggi carichi di alta tensione. Il crazy che ha inaugurato la categoria parte dal principio, indagando le leggende che alimentano i nostri incubi quotidiani: attraverso dieci racconti a sé stanti, Urban Myths dà spazio a quelle storie di paura che ci raccontavamo da bambini e ci facevano subito sentire “grandi”. Ma libera anche quelle ingombranti presenze di cui, una volta cresciuti, non riusciamo a disfarci. I cortometraggi racchiusi all’interno del film indagano l’emarginazione della vita urbana in un’ottica terrificante: perseguitati dal proprio passato, i cittadini di queste città desolate non hanno altro confronto se non con i morti. 

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“LA SCELTA” DI CARLO AUGUSTO BACHSCHMIDT

Era il 27 febbraio del 2012 quando, durante lo sgombero a Chiomonte, Luca Abbà sale su un traliccio ad alta tensione: lo scopo è rallentare le operazioni di esproprio messe in atto per allargare il cantiere del tunnel, di quella “grande opera strategica” ancora oggi in sospeso. Il contatto con i cavi ad alta tensione gli causa un volo di dieci metri. Seppur incosciente, il suo corpo continua a essere percorso da scariche elettriche. Ha un polmone perforato. Entra in coma profondo.

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“UNREST” DI CYRIL SCHÄUBLIN

«Dopo il soggiorno di qualche settimana con gli orologiai, le mie opinioni sul socialismo sono state risolte: ero un anarchico.» Con questa frase di Pyotr Kropotkin estratta dalle sue Memorie di un rivoluzionario (1877), il regista Cyril Schäublin decide di iniziare il suo secondo lungometraggio “Unrest” nel quale, ricostruendo gli eventi del 1870, racconta come l’indipendenza del pensiero degli artigiani delle Montagne del Giura abbia acceso la scintilla per la nascita del movimento anarchico internazionale.

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“MAD HEIDI” DI JOHANNES HARTMANN E SANDRO KLOPFSTEIN

Nella 22° edizione del ToHorror Film Festival, si sta notando grande interesse per la rivisitazione dark di grandi favole per bambini: dalle fascinazioni per il Mago di Oz che ha contaminato la filmografia di David Lynch – cui saranno dedicati diversi omaggi nella giornata di domenica 23 ottobre – fino ai Freakshorts in cui si arriva addirittura a uccidere il povero Babbo Natale. Se la Disney ha voluto il più delle volte edulcorare i gotici racconti dei fratelli Grimm salvando le principesse dal triste destino a cui le favole letterarie le vincolavano, si sta riscoprendo in questi ultimi anni “il lato oscuro” delle storie per l’infanzia, da Hansel e Gretel – Cacciatori di streghe (Wirkola, 2012) a Cappuccetto Rosso Sangue (Hardwicke, 2011) fino alla prossima uscita di Winnie the Pooh: Blood and Honey (Waterfield, 2022). Insomma, al pubblico piace vedere i sogni trasformarsi in incubi, cercando il brivido da vivere insieme nella sala oscura cinematografica. E infatti, Mad Heidi è stato prodotto interamente tramite crowdfunding dagli appassionati del genere (o meglio, dei generi, tra favolistico, splatter ed exploitation) e ha raccolto oltre 2 milioni di franchi svizzeri per la sua realizzazione.


Il primo film della Swissploitation si presenta totalmente libero da qualsiasi controllo produttivo e creativo, portando sullo schermo con fierezza una rivisitazione gore dell’icona svizzera dell’innocenza. Presentato in anteprima nazionale in una sala da sold-out al ToHorror22, Mad Heidi sguazza nell’epica del trash in un amalgama citazionista e spudorato. Il film rinnega fin dalle prime inquadrature l’emblema di una Svizzera rurale, proponendo la rivisitazione distopica di un Paese ormai industrializzato che vive sotto l’assoluto controllo di un magnate del formaggio che combatte la concorrenza dei contrabbandieri-pastori ed elimina gli intolleranti al lattosio con torture alla fonduta. 

A fare scuola, ci sono i grandi classici da grindhouse: il film si destreggia tra omaggi a Rodriguez e addestramenti alla Kill Bill, ma non si lascia scappare neanche citazioni da Apocalypse Now, riferimenti a Il Gladiatore”, né i sottogeneri dedicati alla prigionia femminile e le gag metaculturali, in un minestrone riscaldato che esalta i propri cliché per restituire al pubblico un B-movie che ha il merito di  saper sfruttare le potenzialità del proprio territorio, convertendo l’exploitation americana in un prodotto made in Switzerland che ruoti attorno a riferimenti culturali autoctoni. Non ci sono più caprette che fanno ciao, né monti che sorridono felici: la Heidi di Johannes Hartmann e Sandro Klopfstein è una sanguinaria vichinga tirolese che cerca vendetta per le sofferenze dei suoi cari, una Inglourious Basterd simbolo della lotta antifascista. A metà strada tra il grottesco e la parodia, Heidi non risparmia colpi a nessuno; perché quando giunge l’ora della vendetta, in Svizzera – si sa – arriva puntuale.

Sara Longo

“LOVE LIFE” DI KŌJI FUKADA

Sono molti i linguaggi che si intersecano in Love Life: dal giapponese e il coreano con cui si esprimono i personaggi, a quello musicale, tra il canto popolare e il brano moderno di Akiko Yano che dona il titolo al film. Ma non solo: c’è quello della luce che attraverso il cd appeso sul balcone scaccia gli insetti e “porta fortuna”, il linguaggio dei gesti, con cui si esprime Park, l’ex marito di Taeko, e ancora quello del gioco Otello, in cui simmetria e bipolarismo offrono  un’importante metafora di vita degli stessi personaggi. Eppure è l’incomunicabilità a fare da collante al film.

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“FLEE” DI JONAS POHER RASMUSSEN

«Cosa significa la parola casa per te?»
«È un luogo sicuro, in cui stai e non devi andartene.»

È subito esplicitato il fil rouge di Flee, documentario animato che concorre agli Oscar di quest’anno in tre categorie mai accumunate prima (Miglior Documentario, Miglior Film Internazionale e Miglior Film d’Animazione). Che cosa significa la parola “casa”? La domanda aleggia fin dai primi fotogrammi e racchiude in sé il dramma di una fuga mai conclusa, una straziante odissea nel cuore del protagonista, orfano sospeso e strappato alla sua terra d’origine. Nello spazio rassicurante dell’animazione e nella cornice di una seduta analitica condotta dal regista Jonas Poher Rasmussen, Amin Nawabi (pseudonimo che proteggere la sua vera identità) racconta per la prima volta la sua vita da esule, in fuga dall’Afghanistan in giovane età per salvarsi dagli orrori della guerra. Flee è, per lui, il primo luogo sicuro da tanto tempo. Lo spettatore lo percepisce, sa che può entrare in questa narrazione solo come ospite, in punta di piedi. Chiede permesso prima di varcare la soglia, per essere certo di non violare uno spazio costruito con tanta difficoltà.

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“INMERSIÓN” DI NICOLÁS POSTIGLIONE

La gita in barca di un padre insieme alle sue due figlie si trasformerà presto in un incubo. È questa la semplice premessa su cui si costruisce Inmersión, lungometraggio d’esordio del regista cileno Nicolás Postiglione che indaga ciò che c’è sotto la superficie dei suoi personaggi. «È un peccato non venga più nessuno qui»  commenta il padre osservando con nostalgia i luoghi in cui è cresciuto, ora apparentemente disabitati. Eppure, l’equilibrio precario dei tre protagonisti è definitivamente sconvolto proprio dall’incontro con alcuni naufraghi che, accolti a bordo dell’imbarcazione, iniziano a destare nel padre il timore che le loro vite siano in serio pericolo.

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“PIANO LESSONS” DI ANTONGIULIO PANIZZI

Piano Lessons è un’esperienza emotiva, un vorticoso turbinio di commozione che trova nel cinema documentario il mezzo privilegiato per esplodere raccontando la storia quasi sconosciuta di German Diez Nieto, musicista e virtuoso concertista che abbandonò il palco per dedicarsi esclusivamente all’insegnamento musicale.

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TRA INTERPRETI E SCHERMO: LE MASTERCLASS DEL TFF DEDICATE ALL’ATTORE

Sembra che il cinema non viva fuori dallo schermo. Appare come una chimera che esiste solo nel momento in cui la si guarda; invece, dietro ogni film c’è un gruppo organico ed eterogeneo che lavora incessantemente per portare la magia, finalmente, di nuovo in sala. Attraverso tre Masterclass dedicate alla figura dell’attore nella cornice del Torino Film Festival, si è costruito un interessante punto di incontro tra la recitazione e le figure che vi gravitano intorno, regalando un approfondimento sui mestieri trasversali che accompagnano gli interpreti nei loro percorsi di crescita.

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“RAGING FIRE” DI BENNY CHAN

L’incorruttibile agente Cheung Sung-bong (Donnie Yen) e il suo ex collega Yau Kong-ngo (Nicholas Tse) rappresentano due facce di una stessa medaglia: ritrovarsi l’uno contro l’altro è un po’ come guardare il proprio riflesso in un vetro opaco senza riconoscersi. I loro destini, indissolubilmente intrecciati, si sarebbero potuti capovolgere, se tanto tempo prima avessero compiuto scelte diverse. Ma ora che il passato ha bussato alla porta, è finalmente giunto il momento di pareggiare i conti.

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