Archivi categoria: TFF 33 – 2015

“The Assassin” di Hou Hsiao-Hsien

The Assassin è un film diretto dall’applaudito regista taiwanese Hou Hsiao-hsien, arrivato al Torino Film Festival nella sezione Festa mobile dopo aver trionfato all’ultimo Festival di Cannes vincendo il premio per la miglior regia.

Nella Cina del nono secolo una ragazzina di dieci anni, Nie Yinniang, viene sottratta ai genitori e cresciuta per diventare un’assassina/giustiziera, capace di garantire l’ordine e la giustizia. Viene accuratamente preparata, infatti, per combattere la corruzione e la crudeltà dilaganti fra le province dell’Impero.

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“London Road” di Rufus Norris

Questo film diretto Rufus Norris, tratto da una pièce teatrale, si ispira a un fatto realmente accaduto: l’omicidio di cinque prostitute nella cittadina di Ipswick nel Suffolck, in Inghilterra. Le testimonianze dei residenti di London Road, una via di Ipswick, sono state raccolte dalla sceneggiatrice Alecky Blythe per essere portare in teatro attraverso il suo approccio verbatim: il copione è, infatti, lo script di interviste registrate a persone realmente coinvolte nella vicenda.

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“Borsalino City” di Enrica Viola – Conferenza stampa

La domanda che sorge spontanea a chi abbia visto Borsalino City è: “Perché la decisione di dedicare un intero lungometraggio alla storia di un cappello?”
La regista Enrica Viola risponde sorridendo e ben spiega questa scelta singolare sostenendo che il Borsalino non è un cappello come gli altri. Esso è stato ed è un simbolo di come da una provincia piemontese, Alessandria, si sia arrivati a Hollywood, e come da un semplice cappellaio sia nata una delle industrie italiane più riconosciute nel mondo. Il capitalismo e l’industrializzazione hanno permesso questa spinta centrifuga, pur mantenendo la peculiarità del lavoro artigianale.

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“The Devil’s Candy” di Sean Byrne

Nel profondo Sud dell’america rurale, la mitica terra dei good ol’ boys, insomma in Texas, c’è una giovane e amabile famigliola che cerca casa. Il padre, Jesse, è un pittore, e ha trasmesso la propria passione per la musica metal alla figlia adolescente, mentre la madre lavora in un salone di bellezza; tutto sommato, una normalissima famiglia moderna.

Ma, ottenuta con grandi sacrifici la casa dei loro sogni, essi scoprono che questa è stata il teatro di efferati delitti compiuti da un uomo, un killer deforme obeso modellato sul serial killer John Wayne Gacy (l’attore, Pruitt Taylor Vince, già aveva interpretato un personaggio curiosamente simile ma allo stesso tempo opposto in Constantine). Le voci che lo tormentano lo costringono ad uccidere bambini e giovani ragazzi per soddisfare l’ingordigia del suo demoniaco Maestro, che è, nientepopodimeno, il Diavolo in persona, il quale ha messo gli occhi sulla figlia adolescente di Jesse – quella che lui considera “la caramella più dolce di tutte”.

Sean Byrne è il regista di questo film, un horror in cui la musica fa da protagonista. E’ musica di un genere particolare, quello metal, anzi thrash metal (Metallica, Slayer, Megadeth), e la colonna sonora viene costantemente messa in risalto per dettare i tempi del montaggio e il gusto visivo di scenografie (pareti tappezzate di poster), costumi, magliette e tatuaggi dei protagonisti. Il punto di forza del film è proprio nel soddisfare i fan di questo genere musicale con continui riferimenti ed omaggi ai suoi “mostri sacri”.

Avrei voluto e potuto amare The Devil’s Candy per l’ambientazione, le musiche e la cultura metal e le tematiche sataniste. Ma, purtroppo, non bastano gli ingredienti giusti per preparare un buon piatto. Per fare un buon piatto, come un buon film, ci vogliono soprattutto esperienza, senso della misura, capacità di improvvisare e uscire dal tracciato con sicurezza.

Proprio come accade spesso per il genere di musica che intende omaggiare, questo film finisce per essere ripetitivo, incapace di sorprendere, e soprattutto senza il mordente necessario per impaurire. Non c’è abbastanza drammaticità o tensione, il sangue cola poco, il mostro cattivo è un bambinone che non spaventa – se non quando impugna una pistola per breve tempo maneggiandola proprio come farebbe un bambino, il che crea il momento di maggior disagio dell’intero film.

Le musiche, per quanto belle, sono incapaci di sorreggere la tensione per l’intera durata del film, ed è discutibile che appartengano soltanto al thrash metal, escludendo generi come il death, black e doom che avrebbero reso meglio il senso di malvagità, oppressione e pericolo che la presenza demoniaca/omicida avrebbe dovuto creare. Anche la partecipazione del gruppo musicale Sunn O))) ai sound effects, per quanto apprezzabile, è limitata dalla costante ripetizione del medesimo tema (il sussurro del demonio) che diventa fin troppo familiare e perde rapidamente ogni mordente.

Appaiono insomma troppo presenti la mano del regista, i suoi gusti personali, la sua voglia di far sposare immagini e musiche ad ogni occasione, e il film ne soffre in scorrevolezza, ma non è comunque sconsigliato a priori: ha i suoi pregi e troverà sicuramente un suo pubblico.

“Bølgen” (“The Wave”) di Roar Uthaug

Norvegia. Una piccola città su un fiordo è minacciata da una montagna che rischia di franare da un momento all’altro. Ciò causerebbe uno tsunami che distruggerebbe la ridente cittadina. Solo il geologo Kristian prende sul serio la minaccia. Proprio quando sta per cambiare vita e lavoro accade la catastrofe.

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“London Road”di Rufus Norris – Conferenza Stampa

Ieri alle 13:00 in Sala Stampa nei locali della Rai, l’ultima conferenza stampa della giornata vedeva protagonista London Road di Rufus Norris. Erano presenti Adam Cork, autore delle musiche, e Alecky Blythe, la sceneggiatrice. Entrambi hanno curato l’allestimento sia del musical che del film. Se il trasformare in musical un evento così tragico come quello di cinque omicidi di prostitute (realmente accaduti a Ipswick) meritava attenzione, ancora più attenzione era necessaria nel momento in cui questo evento veniva trasposto al cinema. “Lo spettacolo nasce come spettacolo teatrale ma questo non ci ha esentato dalla responsabilità di riflettere in quest’opera uno spaccato di vita reale. Normalmente al musical si associa la commedia, numeri di danza, canzoni d’amore e tutta una spettacolarità che invece in London Road non troviamo. La nostra preoccupazione principale è stata quella di essere fedeli e rispettosi nei confronti delle vittime degli omicidi ma anche nei confronti degli intervistati che avevano affidato la loro testimonianza ad Alecky” ha dichiarato Cork.

Il lavoro di Cork e Blythe è stato quello di rendere esattamente non solo le parole dei residenti di London Road ma anche la modalità nella quale erano state espresse. Alecky Blythe adotta infatti, in teatro, la tecnica verbatim: cioè la riproduzione letterale delle dichiarazioni rese da testimoni con tutte le variazioni della voce di chi parla, il tono e le esitazioni. Questo andamento ritmico della voce ha richiesto una strutturazione melodica e ritmica sia per i dialoghi recitati che per i dialoghi cantati: una vera e propria partitura in cui alle parole recitate si è soprapposto un accompagnamento musicale che le ha trasformate in “canzoni”.

Adam Cork ha sottolineato che la transizione dal palcoscenico teatrale allo schermo cinematografico lo preoccupava molto anche in considerazione del successo che aveva avuto il musical, perché temeva la perdita di immediatezza tra gli attori e gli spettatori: “Il cinema ha il suo quarto muro che è lo schermo e temevamo che questo avesse un impatto molto forte sull’interazione tra il pubblico e gli attori. Poi però la riflessione che abbiamo fatto a posteriori è che ciascuno di noi è molto più abituato a vedere una rappresentazione drammatica su uno schermo piuttosto che in teatro: la televisione la guardiamo tutte le sere, a teatro non andiamo tutte le sere, e quindi abbiamo capito che sarebbe stato più facile per il pubblico riuscire ad assorbire una tessitura documentaristica in una forma filmica, più immediata, rispetto a quella teatrale ”.

24/11 - conferenza stampa London Road

Alecky Blythe non è stata solo la sceneggiatrice di London Road per il teatro e per il cinema, ma si è anche occupata di condurre e montare le interviste. Ha raccontato di essersi recata a Ipswich nel 2006, quando erano già stati rivenuti i corpi delle cinque prostitute: “Sono andata con il mio registratore raccogliendo le testimonianze di persone che avevano vissuto, più o meno direttamente, i terribili eventi. Ipswick è una città piccola, la popolazione era scioccata dai fatti che avevano gettato scompiglio in una situazione di apparente tranquillità: c’era un assassino latitante, problemi di droga e di prostituzione”.

A seguito degli omicidi, London Road si è trasformata da strada tranquilla a comunità spaventata che organizza turni di sorveglianza notturna. Nei due anni successivi la Blythe è tornata più volte a Ipswick e il suo interesse è passato dai cittadini di Ipswich ai residenti di London Road, perché nel frattempo Steve Wright era stato arrestato come responsabile degli omicidi e si era scoperto che viveva in quella strada divenuta ormai il punto centrale del “quartiere a luci rosse” di Ipswich. “Il lavoro che ho fatto, in teatro e in cinema, è stato diverso perché la sceneggiatura cinematografica ha esigenze diverse partendo dal fatto che mantengo le parole cosi come sono state dette durante le dichiarazioni. Nel film ho dovuto ridurre i dialoghi perché il racconto avveniva anche per immagini: ho rinunciato a una parte dei dialoghi, ma non ho rinunciato alla caratterizzazione dei dialoghi, al sapore della testimonianza resa” ha precisato Alecky.

Alla domanda se ci fosse un intento di critica verso i residenti che in alcune parti del film pronunciano parole molto dure nei confronti delle prostitute, la Blythe ha risposto che non c’è mai stata nessuna volontà di criticare i residenti, né c’è stata da parte degli stessi protagonisti alcuna percezione di critica nei loro confronti: “Abbiamo cercato di essere il più possibile rispettosi della sincerità delle dichiarazioni rese dai residenti. Quando sono andata la prima volta a condurre le interviste, naturalmente, percepivo i diversi punti di vista e le tensioni che c’erano, ma tutte le loro rivelazioni erano sincere. Le dinamiche e i  conflitti sono via via cambiati nel tempo: questo aveva a che fare con lo scoprire cose che avvenivano nella strada che loro non sapevano stessero avvenendo, e percepivano tutto con un senso di possesso della strada, come se qualcuno si sentisse più o meno titolato a controllarla. La sensazione che probabilmente arriva al pubblico nell’ascoltare le loro dichiarazioni è la difficoltà nel capire quello che loro hanno provato in questo percorso che poi è quello che ha generato certi toni nell’esprimere le loro opinioni. Credo che nessuno di noi che non ha vissuto gli eventi, possa capire cosa significhi avere la vita completamente stravolta”.

Durante la lavorazione del film, ha poi aggiunto Alecky, sia lei che Cork, che Norris, sono stati molto attenti a mantenere aggiornati i residenti sulle scelte effettuate e su come intendevano portare sullo schermo questa vicenda. Hanno ad esempio mostrato loro la location che avevano scelto per il film, una strada molto diversa dalla vera London Road, ma che consentiva al regista di mostrarne l’evoluzione: da strada tetra, squallida, oscura dell’inizio a strada bella e pieni di fiori che vediamo alla fine del film. La reazione da parte di tutti i residenti  è stata molto positiva al punto che per la scena conclusiva del film molte delle comparse erano proprio i residenti stessi.

La reazione, invece, del pubblico italiano, come faceva notare un giornalista presente in sala stampa, è stata anche di riso in alcuni momenti del film. La sceneggiatrice ha risposto che questo è normale, e in parte anche voluto, proprio in virtù del fatto che quando lei lavora ad un progetto  preferisce concentrarsi non sull’occhio del ciclone ma sulle onde che questo propaga, lasciando anche un po’  “respirare” la storia e permettere al pubblico di provare empatia e simpatia per i protagonisti. La volontà di decentrare lo sguardo è anche la motivazione alla base dell’assenza di Steve Wright sia nel musical che nel film: “Il motivo per cui sono andata a Ipswich è perché le vicende che mi stavano a cuore erano quelle della popolazione della città, in particolare dei residenti della strada, per capire come la vita di queste persone sia stata completamente sconvolta  per la casualità di abitare vicino ad un serial killer. In più Steve Wright era già coperto dai media di tutto il mondo. E’ la percezione che mi hanno dato le persone che ho intervistato che volevo rendere in questo lavoro”.

Adam Cork, in chiusura, ha aggiunto che il riso spontaneo che può sorgere guardando il film non è un riso di derisione, ma appunto un riso empatico rispetto a qualcosa che il pubblico riconosce come familiare, una reazione che potrebbe avere chiunque nella medesima situazione.

Guldkysten (Gold coast) by Daniel Dencik

Article by: Giulia Tinivella Dettoni

Translation by: Roberto Gelli

Guldkysten (Gold Coast) is a film produced in 2015 by Danish director and writer Daniel Dencik and has been presented within the section Festa Mobile in TFF.

gold coast 2

The story takes place in the first half of 19th century. A young and naive Danish botanist leaves for the African colonies in the Gold Coast, in order to check and develop local plantations, and at the same time with the purpose of studying several floral species in those savage places, which are still unknown. Once he reaches the colonies, he is amazed by the enchanted nature of its forests and meets black people, towards whom he feels at the beginning a sense of superiority, soon replaced by the idea that there are no differences between they and him. He witnesses the disgusting behavior of the colony governor and his vices towards local women and men, who have to endure any kind of wickedness and vulgarity. As time goes by, he becomes a visionary: he dreams of a world without slavery, in which he could educate local people, in order to let them progress. But no one is going to support him.

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One day he discovers that a rich black merchant traffics in slaves. He furiously decides to intervene and stop that slave trade, which was already forbidden by law, though still practiced. In spite of an illusory victory, where justice, liberty and equality finally seem to prevail, the young botanist soon finds himself alone and ends up being treated in worse conditions than those reserved to the slaves.

gold coast 3

The director makes the movie start by showing the final scenes as a prologue: in this way, he wants to give more importance to the set up rather than to the narration. Gold Coast refers to Romanticism, a period when nature was celebrated for its vitality. We see the beautiful landscapes of Ghana (the same ones of Cobra Verde of Herzog), which are the protagonist of the film in some of its parts and represent the adoration of nature. Above all, Daniel is struck by the law regulating this savage nature: mathematical laws, not the traditional ones already known at that time. The spiral figure with its cyclic nature and its repeating is what mostly attracts him. It is part of the story’s architectural structure and works as a message telling us that in a certain way, the world will always come back to its original condition, to be what it was before.
This is a film, which shows the magnificent beauty of African nature but at the same time, it points out the evil of human being, who does not deserve to live in such a perfect world.

 

“John From” di João Nicolau

Gli anni dell’adolescenza sono i più belli e contemporaneamente i più brutti della nostra vita. Questa è una tipica frase con la quale non si sa mai se essere d’accordo o no; di certo è vero che gli anni dell’adolescenza sono quelli in cui i nostri sogni cominciano a prendere forma, a deragliare dai binari infantili verso la dura realtà. E’ un processo quasi obbligato nel percorso dall’adolescenza all’età adulta. Nel film di João Nicolau accade esattamente l’opposto.

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“Evolution” di Lucile Hadzihalilovic – Conferenza stampa

Alla domanda “Quali sono i registi che più l’hanno influenzata?” risuonano nella sala due nomi: Dario Argento e David Cronenberg. Questa la risposta che Lucile Hadzihalilovic dà ai giornalisti durante la Conferenza stampa tenutasi oggi 24 Novembre riguardo il suo nuovo film Evolution. Suoi Maestri sono Dario Argento per la sua concezione di horror e per la scelta delle locations, David Cronenberg per la capacità di riprodurre sullo schermo le metamorfosi del corpo. Aggiunge anche che le letture dei miti classici da cui ha tratto l’idea delle creature marine, e degli scritti di Howard Philips Lovecraft sono state fondamentali per la realizzazione del film.

Dopo Innocence del 2004, ambientato in una scuola isolata dal mondo frequentata da innocenti bambine, in Evolution vi sono solo donne e bambini. La regista francese dichiara che la mancanza di uomini nel film accentua maggiormente il suo aspetto orrifico perché nessuno può contrastare le donne che, schiavizzando i bambini, li usano a loro piacimento provocando il loro smarrimento. I personaggi sono rinchiusi in un mondo claustrofobico. L’ambientazione buia e che non lascia respiro rende il racconto terrificante.

24/11 - conferenza Evolution con Lucile Hadžihalilović

Il progetto originale di Evolution prevedeva un numero maggiore di elementi fantascientifici poi accantonati a causa dello scarso budget a disposizione. Sono numerose, invece, le immagini crude che danno una rappresentazione realistica della situazione (forse scorie del cinema di Gaspar Noé – il quale tra l’altro è suo marito).

Evolution è il frutto di angosce personali ma anche un tentativo di risposta alle teorie darwiniane proponendo una visione della Terra abitata da altre creature oltre l’essere umano.

“Heterophobia” di Goyo Anchou

Dopo la visione del bellissimo cortometraggio di Pappi Corsicato Pompei Eternal Emotion, qualcuno del pubblico lascia la sala, altri sono intimoriti dal prossimo film o forse solo dal suo titolo: Heterophobia. Cala il buio. Appare un personaggio, Mariano, che si masturba. Altri spettatori se ne vanno, schegge di perbenismo lasciano la sala. Mariano per un minuto è amore meccanico. Così si apre Heterophobia, “una rapsodia antipatriarcale”, lungometraggio di Goyo Anchou.

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“High Rise” di Ben Wheatley

Il film è l’adattamento cinematografico del romanzo Il condominio di James Graham Ballard. Il premio Oscar Jeremy Thomas era da anni interessato alla realizzazione di questo film, è riuscito però a produrlo solo nel 2014.

Presentato in anteprima al Toronto International Film Festival, poi in concorso al Festival di San Sebastián, High Rise arriva al TFF e viene proposto nella sezione Festa Mobile, dedicata alle opere fuori concorso e inedite in Italia, che esprimono il meglio della produzione cinematografia internazionale.

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“Phantom Boy” di Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol

“Mi chiamo Leo, ho 11 anni e ho un segreto… Sono un eroe.”

Phantom Boy è un film d’animazione che racconta la storia di un bambino malato di leucemia il quale scopre di possedere un potere: può staccarsi dal suo corpo e volare come un fantasma. Invisibile agli occhi di tutti, Leo attraversa i muri dell’ospedale e svolazza libero per la città di New York.

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“Sophelikoptern” (“The Garbage Helicopter”) di Jonas Selberg Augustsén

Sophelikoptern (The Garbage Helicopter) è un curioso film del regista svedese Jonas Selberg Augustsén, presentato nella sezione TorinoFilmLab del Festival.

La sequenza iniziale ci mostra una piattaforma d’atterraggio immersa in una fitta foresta nordica, sulla quale viene sganciato un enorme container da un elicottero che sentiamo, ma non vediamo. A seguire si cambia ambientazione: un’anziana signora all’interno della propria camera si accorge di non poter più fare a meno, dopo un anno di attesa, del suo orologio ora in riparazione; alza il telefono, chiama la nipote dall’altra parte della Svezia e chiede di riportarglielo. Inizia così il viaggio della nipote, di suo fratello e di un amico attraverso tutto il Paese.

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“Fahrenheit 451” di François Truffaut

Tratto dal romanzo omonimo di Ray Bradbury, il lungometraggio del 1966 diretto da François Truffaut s’inserisce nella retrospettiva “Cose che verranno”.

La società prospettata nel film, in un futuro non ben definibile, prevede un divieto assoluto e tremendo: leggere libri. Questi sono vietati, messi al bando, e se trovati, bruciati dai pompieri che non spengono incendi, ma li provocano. E’ proprio uno di loro il protagonista del film, un tranquillo esecutore di ordini che ha deciso di non porsi alcuna domanda sul perché debba mettere in atto questa barbarie. Sarà l’incontro con una vicina di casa, un’insegnante lettrice clandestina, a instillare in lui dei dubbi e infine un impeto rivoluzionario che cambieranno per sempre la sua esistenza.

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“The Lady in the Van” di Nicholas Hytner

Mary Shepherd (interpretata da una fantastica Maggie Smith) è una vivace donna anziana che vive dentro il suo caro, vecchio e puzzolente furgone. Vaga gironzolando per le strade di Londra in cerca di un posto sicuro dove stare, fino a quando non arriva a Camden Town, un  quartiere nel Nord della città. Qui la gente si dimostra subito gentile nei suoi confronti, nonostante l’odore che porta con sé davanti alle loro case.

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“Akira” di Katsuhiro Ôtomo

Neo Tokyo, 2019. Dopo la Terza Guerra Mondiale il Giappone è in crisi. Economia allo sbando, politica corrotta e inefficace non riescono a trovare il modo di far ripartire un Paese in cui il crimine e la violenza la fanno da padrone. Unica cosa che sembra importare al Governo è Akira, sorta di progetto segretissimo volto al controllo di un potere enorme, che ha causato il proliferare di sette di invasati in tutta la città, i quqli predicano l’avvento di una divinità chiamata Akira. In questo caos sfrecciano su bolidi truccati gang di motociclisti, tra cui anche Kaneda e Tetsuo, ma un incidente inaspettato durante una scorribanda notturna come tante cambia per sempre le loro vite e quelle dell’intera nazione.

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Akira by Katsuhiro Ôtomo

Article by: Matteo Merlano

Translation by: Kim Turconi

Neo Tokyo, 2019. After the third World War, Japan is in crisis. Economy in ruin in addition to corrupted and ineffective politics cannot find a way to start up again a Nation where crime and violence rule the roost. The only thing which seems to be of a certain relevance to the government is the Akira Project, sort of super secret project intended to control an enormous power, which has caused sects of obsessed people to flourish all around the city, preaching the arrival of a divinity called Akira. In this chaos, gangs of bikers speed across the city on modified beasts. Among them there are Kaneda and Tetsuo. An unexpected accident during one of the many raids, will change their lives and those of the entire nation forever.

Undisputed masterpiece of Japanese animation, the movie of Katsuito Otomo is not just a cinematographic opera, but a whole experience, leaving the audience breathless. Produced in 1988 (in Italy came out only in 1992) it was the most expensive anime in History (with a budget of one billion yens) and brought to the creation of a specific production house to realize it, the Akira Committee, with Otomo himself as the chairman, who employed for years more than one thousand animators. All the fears and the contradictions of that decade are contained in this dystopia which draws fully from western cult movies. An elaborate, chaotic and colossal Neo Tokyo is the spitting image of the rainy Los Angeles from Blade Runner (the time of setting is, for this reason, not randomly chosen) ruled by lawless riders (Mad Max) who go all around the city on futuristic bikes (Kaneda’s motorcycle design is identical to the lightcycles from Tron). The aesthetic magnificence is something which leaves everyone amazed and the masterly sound work, overseen by composer Shoji Yamashiro, was an epochal evolution in the animation field.

The concept of Evolution itself is the base of Akira. What is this mysterious energy, so devastating that it needs to be hidden in the bowels of the earth? Who controls it? Where it comes from? Who owns it and how can it be used? The spiritual aspect of the film lies in this ambivalence of the concept of Evolution – especially technological evolution – which often leads to a regression when technology goes too far.
Is it creative or destructive? Otomo is certainly a son of Hiroshima and Nagasaki. That “sun” – which kills tens of thousands people in a few seconds – has affected his worldview. Evolution is a powerful force, but it can cause pain if mishandled. Akira embodies this philosophy and make it to burst with an explosion of visual effects and visionary experiences that leave an impression on one’s mind. The future portrayed by Otomo is crazy, chaotic and illuminated only by neon signs and skyscrapers lights. It is a future in which people run at full speed without any purpose, or they run for the wrong reasons.

The title of this review is taken from the famous Blade Runner monologue of Roy Batty/Rutger Hauer. Our choice has not been accidental, because the Future is already here – and perhaps already experienced. Otomo, just like Scott, “has seen things”. And we have seen them with him.

“La Patota – Paulina” di Santiago Mitre

Santiago Mitre, dopo il successo di El estudiante, vincitore del Gran Premio della giuria al Festival di Locarno 2012, arriva sulla scena torinese con quest’opera seconda, La Patota –Paulina, film in concorso nella corrente edizione del Festival. Al regista è bastata una sola visione del film Patota (1961) di Daniel Tinayre per rimanere colpito dal personaggio di Paulina e accettare di dirigerne il remake.

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“The War of The Worlds” (“La guerra dei Mondi” ) di Byron Haskin

In una calda notte d’estate, dalla volta celeste che sovrasta un’America sonnecchiante si staccano alcune stelle. Meteoriti incandescenti si schiantano al suolo e da essi emergono sinistre navicelle spaziali armate di raggi laser. I marziani devono lottare per la sopravvivenza e sferrano un potente attacco alla Terra con l’intento di colonizzarla, trascinando l’umanità in una guerra dei mondi dagli esiti potenzialmente distruttivi.

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