“Love Child” di Valerie Veatch

Love Child  di Valerie Veatch, presentato in concorso nel 2014 al Sundance Film Festival nella sezione documentari, è stato oggi riproposto al Sottodiciotto Film festival & Campus, con un’introduzione di Andrea Mattacheo. Questo film racconta la storia di una coppia di giovani coreani del Sud che ha lasciato morire la figlia di malnutrizione. Il caso ha suscitato molto scalpore perché la coppia ha compiuto questo gesto a causa della dipendenza da un videogame.

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Incontro con Dario Argento

Questa mattina al cinema Romano si è tenuto un incontro con il regista Dario Argento nell’ambito di Sottodiciotto Film Festival & Campus.  Questo incontro è stato pensato come momento di riflessione sul cinema da parte dei giovani – in particolare gli studenti del DAMS e del Corso di Laurea in Ingegneria del cinema. Hanno introdotto l’ospite Steve della Casa – direttore del Festival – e Giulia Carluccio – presidente dell’Aiace e del DAMS – i quali, a partire da un’analisi di alcune tematiche e di alcuni aspetti del linguaggio dell’opera di Argento, hanno espresso sollecitazioni interessanti alle quali il regista si è prestato a rispondere in modo esauriente.

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Mostra “Dylan Dog 30. Trent’anni di Indagatore dell’Incubo”

Alla Pinacoteca Albertina il Sottodiciotto inizia da un fumetto

Sogno del cinema e fumetto sull’incubo si intrecciano nelle notti del Sottodiciotto Film Festival di quest’anno. Che inizia sotto la luna di Dylan Dog, il più italiano degli indagatori su strisce.

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“The Blank Generation” di Ivan Král – Conferenza Stampa

Ivan Král è un musicista, produttore, compositore di colonne sonore e regista. Ha inciso dischi da solista, ha collaborato con artisti quali Patti Smith, Iggy Pop, John Cale, David Bowie, Pearl Jam, U2, e con Amos Poe ha codiretto i documentari Night Lunch (1976) e The Blank Generation (1976).

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“Bleed for This” by Ben Younger

Versione inglese a cura del Master in Traduzione per il Cinema, la Televisione e l’Editoria Multimediale

Article by: Bianca Beonio Brocchieri

Translation by: Elisa Grattarola, Elena Salama

Bleed for This shows its protagonist in an unusual way: wrapped with layers of cellophane, while pedaling furiously on a stationary bicycle and sweating like a broken sink[1]. Soon after, he is weighed in front of a crowd of reporters: he falls into the lightweights’ category by a whisker, so that he can attend the big match for the world title. This is the beginning of the new film by Ben Younger – back to the screen after more than ten years since his last one, Prime – a biographical drama based on the life of Vinny “The Pazmanian Devil” Pazienza, a boxer who actually existed, skillfully performed by the rising star Miles Teller, (Whiplash, The Spectacular Now).

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“Bleed For This” di Ben Younger

Bleed for This presenta il suo protagonista in un modo insolito: avvolto dentro a strati di cellophane mentre pedala furiosamente su una cyclette, sudando come un rubinetto aperto. Poco dopo viene pesato davanti a una folla di cronisti: rientra nella categoria dei pesi leggeri per un soffio, e la sua partecipazione al grande match per il titolo mondiale viene confermata. Così inizia il nuovo film di Ben Younger – tornato al cinema a più di dieci anni di distanza dal suo ultimo lungometraggio Prime – un biopic su Vinny “The Pazmanian Devil” Pazienza, boxeur realmente esistito, magistralmente interpretato dalla star emergente Miles Teller (Whiplash, The Spectacular Now).

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“Free Fire” by Ben Wheatley

Versione inglese a cura del Master in Traduzione per il Cinema, la Televisione e l’Editoria Multimediale

Article by: Bianca Beonio Brocchieri

Translation by: Francesca Gazzaniga

After High Rise, cryptic adaptation of James G. Ballard’s novel shown at the 33rd TFF, Ben Wheatley is back in town with Free Fire, a show-off, Tarantino-style movie that shamelessly tries to captivate the audience with alluring tricks. We are in 1970; the plot takes place in a single night, inside an abandoned factory in Massachusetts, where an odd bunch of awkward characters gathers to finalize a weapon deal. The ten traffickers are split into two opposing sides, even though it is not difficult to guess that each one hides their own private interest, thus making the already fragile alliances unpredictable. After a preamble right outside the factory, as soon as the cases full of rifles are delivered, the tension increases to the maximum. A tiny spark is enough to start an endless fire, the armed conflict being the scope of the movie. The outstanding cast (Cillian Murphy, Brie Larson, Michael Smiley, Armie Hammer and Sharlto Copley) must crawl, roll, scream, get punched and shot to the bitter end, burn, bleed, without ever abandoning the slight comic patina made of edgy jokes, which are thrown and returned exactly like gunshots. The many characters are literally die-hard: as in cartoons, their bodies can stand any kind of violence without giving up fighting and trash talking.

But Free Fire aims too high. After a promising, high-tension beginning, from the first gunshot onwards the movie implodes in a buildup of stereotypes and repetitive actions. The comic quality and wit of the jokes, some of which are in fact memorable, is flooded by a heavy rain shower of stray bullets and fickle characters who cannot decide where to stand. In action movies, especially in the shooter subgenre, drawing a well-defined geography of the battlefield is paramount, even more so if the plot is set entirely inside a warehouse. The characters themselves are confused about the overall placement of enemies and allies in the factory (several times the wrong targets are hit – insults and apologies follow) but this fact does not justify the degree of confusion the director induces in the viewer. Representing a chaotic guerrilla does not necessarily mean to put the spectator in the same condition of the protagonists. After a generous mayhem shooting, which lasts more than an hour, the result is that moviegoers give up guessing who’s shooting and who’s being shot, as there aren’t enough clues to even try doing it.

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Despite the movie winking at Tarantino, Peckinpah and Scorsese (who is executive producer), unfortunately, Free Fire never takes off. It remains stuck in the same factory where the whole action takes place and never manages to gain the cult-movie effect that other action films were able to obtain without so much effort.

“Free Fire” di Ben Wheatley

Dopo High-Rise, criptico adattamento del romanzo di James G. Ballard proiettato al TFF33, Ben Wheatley torna a Torino con Free Fire, un film in stile tarantiniano che pecca di virtuosismo e tenta spudoratamente di conquistare il pubblico con trovate di grande richiamo. Siamo nel 1970; la vicenda si svolge nell’arco di una sola notte, all’interno di una fabbrica abbandonata nel Massachusetts, dove una strana compagine di improbabili personaggi si riunisce per finalizzare uno scambio d’armi. I dieci trafficanti sono ben divisi in due schieramenti contrapposti, anche se non è difficile intuire che ognuno di loro nasconde qualche interesse privato, rendendo le alleanze fragili e mutevoli. Dopo un preambolo all’esterno della fabbrica, appena le scatole dei fucili vengono consegnate la tensione comincia ad aumentare a dismisura. Basterà pochissimo per far deflagrare un interminabile conflitto a fuoco che costituisce l’ossatura di tutto il film. Il cast stellare (Cillian Murphy, Brie Larson, Michael Smiley, Armie Hammer e Sharlto Copley) è costretto a strisciare, rotolare, urlare, prendere pugni e pallottole a oltranza, bruciare e sanguinare, senza mai abbandonare una leggera patina comica di battute taglienti, scambiate come se le parole fossero, a loro volta, dei colpi di fucile. I molti personaggi sono, letteralmente, duri a morire: come nei cartoni animati, i loro corpi possono subire ogni tipo di violenza, ma non smettono mai di combattere ed insultarsi.

Free Fire, però, punta troppo in alto. Dopo un promettente inizio carico di tensione, dal momento in cui viene sparato il primo colpo il film implode in un accumulo di stereotipi e azioni ripetitive. La comicità e l’intelligenza delle battute, alcune delle quali davvero memorabili, viene sommersa da una pioggia di proiettili vaganti e personaggi voltagabbana che non sanno più da che parte stare. Nei film d’azione, in particolare modo nel sottogenere dello sparatutto, è imprescindibile creare una definita geografia del campo di battaglia, a maggior ragione se la storia si svolge interamente in un capannone industriale. I personaggi hanno le idee confuse sulla generale disposizione di nemici e alleati all’interno della fabbrica (più volte, infatti, vengono colpite le persone sbagliate, con conseguenti insulti e scuse), ma questo non giustifica il grado di confusione che il regista induce nello spettatore. Rappresentare una guerriglia caotica non vuol dire necessariamente mettere lo spettatore nella stessa condizione dei personaggi. Il risultato è che dopo un’ora abbondante di pandemonio a fuoco, non ci sforziamo nemmeno più di capire chi spara e chi è stato colpito, perché non ci viene dato un numero sufficiente di coordinate per provare a farlo.

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Nonostante tutte le strizzate d’occhio a Tarantino, Peckinpah e Scorsese (che è produttore esecutivo del film), Free Fire purtroppo non decolla. Rimane bloccato fra le quattro mura della fabbrica in cui confina la sua azione, senza mai ottenere il tanto cercato effetto cult che altri film d’azione sono riusciti ad ottenere senza così tanto sforzo.

Sezione “I Did It My Way – Essere Punk”

26 novembre 1976 : I Sex Pistols pubblicano il loro primo singolo Anarchy in the UK. Nasce il punk: una tendenza musicale che però contagia ben presto moda, cultura e diventa una vera e propria filosofia di vita. Ed è proprio lì nella Londra della crisi che inizia a diffondersi il germe del punk. Proprio in questi giorni in Gran Bretagna si celebra il quarantesimo anniversario della nascita del punk e il Torino Film Festival si unisce alla celebrazione dedicando una sezione ai film punk, I Did it My Way , in una dimensione che spazia dal movimento politico, ai leader della scena punk musicale.

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“Le fils de Joseph” di Eugène Green – Conferenza stampa

Si è svolta, nelle sedi Rai, la conferenza stampa di Le fils de Joseph di Eugène Green, presentato nella sezione “Onde” al 34° Torino Film Festival. Il regista si è reso disponibile a rispondere per mezz’ora alle molte domande e curiosità da parte dei giornalisti, mostrando inoltre la conoscenza dell’italiano quasi impeccabile. La storia narrata vuole essere foriera del messaggio che la comunicazione tra generazioni (tra padri e figli per esempio) è molto importante; il problema maggiore della civiltà di oggi, come afferma Green, è che la gente non vive più nel presente, ovvero nella realtà, ma in una dimensione sempre più virtuale. Questo tema influenza diversi lavori del regista.

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“A Crackup at the Race Riots” di Leo Gabin

Leo Gabin è un collettivo belga il cui nome  è l’unione delle iniziali  dei nomi dei tre artisti che lo compongono. Un’unica entità a rappresentanza di tutti. Al centro del loro interesse c’è la transmedialità digitale. I Leo Gabin, oltre a occuparsi di arte visuale “tradizionale” e di installazioni, raccolgono materiale video, prevalentemente proveniente dal web, rielaborandolo attraverso un uso alquanto originale del found footage.

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“A pugni chiusi” di Pierpaolo De Sanctis

Tra le rovine dell’antica Roma e gli scheletri di edifici industriali moderni, Lou Castel si ritrova a mettere in atto una performance d’attore che vive drammaticamente nel presente. Un presente in Italia, paese dove l’attore svedese si è formato, e un presente cinematografico, che propone allo spettatore una riflessione in prima persona  sulla cultura e sul mestiere dell’attore.

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“Maquinaria Panamericana” by Joaquín del Paso

Versione inglese a cura del Master in Traduzione per il Cinema, la Televisione e l’Editoria Multimediale

Article by: Mattia Capone

Translation by: Giulia Epiro, Chiara Mutti

“This is the first day of the rest of your life” says a voice on the speakers. We find ourselves in an old construction machinery factory in Mexico City: all the employees work in harmony, the mood is easygoing, informal. Everything is idyllic – at least in the first ten minutes. An upsetting occurrence breaks the routine, as the beloved chief, Don Alejandro, is found lifeless in the back of the storage.

As it turns out, the company has been on the brink of bankruptcy for years, also because of the crisis in Mexican manufacturing sector, and everyone’s salary has been paid directly by Don Alejandro. At this point, workers feel very discouraged and start ruling chaos in the factory.

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“Maquinaria Panamericana” (“Panamerican Machinery”) di Joaquín del Paso

“Questo è il primo giorno del resto della vostra vita” dice una voce dagli altoparlanti. Siamo in una vecchia fabbrica di macchinari per l’edilizia a Città del Messico: tutti i dipendenti lavorano in serenità, c’è  un clima familiare, regna il buonumore. Tutto è idilliaco. Per i primi dieci minuti del film. Un evento sconvolgente infrange la routine: il loro amato capo, Don Alejandro, viene trovato senza vita nel retro del magazzino.
Si scopre quindi che in l’azienda è in realtà sull’orlo del fallimento da anni, anche a causa della crisi del settore manifatturiero messicano, e che il salario di ognuno dei dipendenti veniva pagato direttamente da Don Alejandro, di tasca sua. A quel punto i dipendenti vengono presi dallo sconforto e nella fabbrica inizia a regnare il caos.

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“L’ora di regia” – Incontro con Gianni Amelio

L’incontro prende il nome dal libro scritto a quattro mani da Gianni Amelio e Francesco Munzi, L’ora di regia. Da un’idea nata da vari incontri con Emiliano Monreale, è un testo che cerca di sciogliere i nodi attorno al rapporto tra docente di cinema e studente.

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“Les derniers parisiens” by Bourokba and Labitey

Versione inglese a cura del Master in Traduzione per il Cinema, la Televisione e l’Editoria Multimediale

Article by: Marco Bellani

Translation by: Riccardo Abba, Barbara Lisè

There is a city in this world that reflects the times we live in; there is a place in this city that is its metaphor. The city of Paris and its clubs: people from every walk of life, students, jailbirds, kids, transvestites, aspiring actresses, pushers and common people intertwine and meet. Everybody is looking for something, everyone hopes to get in in spite of prejudice.

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“Les derniers parisiens” (“Paris Prestige”) di Mohamed “Hamè” Bourokba e Ekoué Labitey

C’è una città in questo nostro mondo che è specchio dei tempi in cui viviamo; c’è un luogo in questa città che ne è una metafora in piccolo. Parigi e le sue discoteche: varia umanità, studenti, avanzi di galera, ragazzini, travestiti, aspiranti attrici, spacciatori, gente comune si intrecciano e si incontrano. Ognuno cerca qualcosa, ciascuno spera di superare un ingresso filtrato dalle discriminazioni.

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“Safe Neighborhood” by Chris Peckover – Press conference

Versione inglese a cura del Master in Traduzione per il Cinema, la Televisione e l’Editoria Multimediale

Article by: Valentina Di Noi

Translation by: Francesco Chiocci

Nobody would expect that something frightening could happen in a safe place but that’s what happens in this film, an anti-horror.

The director Chris Peckover prefers bright lights and colours, unlike the classic horror movie. His aim is to create an atmosphere that wouldn’t anticipate any scary event.

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“Safe Neighborhood” di Chris Peckover – Conferenza stampa

I termini “safe neighborhood” designano in America la vita in quartiere sicuro. Nessuno si aspetta che qualcosa di spaventoso possa accadere in posto sicuro, ma è proprio quanto avviene nel film, un horror antihorror.

Il regista Chris Peckover predilige luci forti e colori vivaci, diversamente dai consueti film horror. Il suo intento è quello di creare un’atmosfera che non facesse presagire eventi spaventosi.

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Il blog delle studentesse e degli studenti del Dams/Cam di Torino