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“Free Fire” by Ben Wheatley

Versione inglese a cura del Master in Traduzione per il Cinema, la Televisione e l’Editoria Multimediale

Article by: Bianca Beonio Brocchieri

Translation by: Francesca Gazzaniga

After High Rise, cryptic adaptation of James G. Ballard’s novel shown at the 33rd TFF, Ben Wheatley is back in town with Free Fire, a show-off, Tarantino-style movie that shamelessly tries to captivate the audience with alluring tricks. We are in 1970; the plot takes place in a single night, inside an abandoned factory in Massachusetts, where an odd bunch of awkward characters gathers to finalize a weapon deal. The ten traffickers are split into two opposing sides, even though it is not difficult to guess that each one hides their own private interest, thus making the already fragile alliances unpredictable. After a preamble right outside the factory, as soon as the cases full of rifles are delivered, the tension increases to the maximum. A tiny spark is enough to start an endless fire, the armed conflict being the scope of the movie. The outstanding cast (Cillian Murphy, Brie Larson, Michael Smiley, Armie Hammer and Sharlto Copley) must crawl, roll, scream, get punched and shot to the bitter end, burn, bleed, without ever abandoning the slight comic patina made of edgy jokes, which are thrown and returned exactly like gunshots. The many characters are literally die-hard: as in cartoons, their bodies can stand any kind of violence without giving up fighting and trash talking.

But Free Fire aims too high. After a promising, high-tension beginning, from the first gunshot onwards the movie implodes in a buildup of stereotypes and repetitive actions. The comic quality and wit of the jokes, some of which are in fact memorable, is flooded by a heavy rain shower of stray bullets and fickle characters who cannot decide where to stand. In action movies, especially in the shooter subgenre, drawing a well-defined geography of the battlefield is paramount, even more so if the plot is set entirely inside a warehouse. The characters themselves are confused about the overall placement of enemies and allies in the factory (several times the wrong targets are hit – insults and apologies follow) but this fact does not justify the degree of confusion the director induces in the viewer. Representing a chaotic guerrilla does not necessarily mean to put the spectator in the same condition of the protagonists. After a generous mayhem shooting, which lasts more than an hour, the result is that moviegoers give up guessing who’s shooting and who’s being shot, as there aren’t enough clues to even try doing it.

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Despite the movie winking at Tarantino, Peckinpah and Scorsese (who is executive producer), unfortunately, Free Fire never takes off. It remains stuck in the same factory where the whole action takes place and never manages to gain the cult-movie effect that other action films were able to obtain without so much effort.

“Free Fire” di Ben Wheatley

Dopo High-Rise, criptico adattamento del romanzo di James G. Ballard proiettato al TFF33, Ben Wheatley torna a Torino con Free Fire, un film in stile tarantiniano che pecca di virtuosismo e tenta spudoratamente di conquistare il pubblico con trovate di grande richiamo. Siamo nel 1970; la vicenda si svolge nell’arco di una sola notte, all’interno di una fabbrica abbandonata nel Massachusetts, dove una strana compagine di improbabili personaggi si riunisce per finalizzare uno scambio d’armi. I dieci trafficanti sono ben divisi in due schieramenti contrapposti, anche se non è difficile intuire che ognuno di loro nasconde qualche interesse privato, rendendo le alleanze fragili e mutevoli. Dopo un preambolo all’esterno della fabbrica, appena le scatole dei fucili vengono consegnate la tensione comincia ad aumentare a dismisura. Basterà pochissimo per far deflagrare un interminabile conflitto a fuoco che costituisce l’ossatura di tutto il film. Il cast stellare (Cillian Murphy, Brie Larson, Michael Smiley, Armie Hammer e Sharlto Copley) è costretto a strisciare, rotolare, urlare, prendere pugni e pallottole a oltranza, bruciare e sanguinare, senza mai abbandonare una leggera patina comica di battute taglienti, scambiate come se le parole fossero, a loro volta, dei colpi di fucile. I molti personaggi sono, letteralmente, duri a morire: come nei cartoni animati, i loro corpi possono subire ogni tipo di violenza, ma non smettono mai di combattere ed insultarsi.

Free Fire, però, punta troppo in alto. Dopo un promettente inizio carico di tensione, dal momento in cui viene sparato il primo colpo il film implode in un accumulo di stereotipi e azioni ripetitive. La comicità e l’intelligenza delle battute, alcune delle quali davvero memorabili, viene sommersa da una pioggia di proiettili vaganti e personaggi voltagabbana che non sanno più da che parte stare. Nei film d’azione, in particolare modo nel sottogenere dello sparatutto, è imprescindibile creare una definita geografia del campo di battaglia, a maggior ragione se la storia si svolge interamente in un capannone industriale. I personaggi hanno le idee confuse sulla generale disposizione di nemici e alleati all’interno della fabbrica (più volte, infatti, vengono colpite le persone sbagliate, con conseguenti insulti e scuse), ma questo non giustifica il grado di confusione che il regista induce nello spettatore. Rappresentare una guerriglia caotica non vuol dire necessariamente mettere lo spettatore nella stessa condizione dei personaggi. Il risultato è che dopo un’ora abbondante di pandemonio a fuoco, non ci sforziamo nemmeno più di capire chi spara e chi è stato colpito, perché non ci viene dato un numero sufficiente di coordinate per provare a farlo.

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Nonostante tutte le strizzate d’occhio a Tarantino, Peckinpah e Scorsese (che è produttore esecutivo del film), Free Fire purtroppo non decolla. Rimane bloccato fra le quattro mura della fabbrica in cui confina la sua azione, senza mai ottenere il tanto cercato effetto cult che altri film d’azione sono riusciti ad ottenere senza così tanto sforzo.