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“VISITORS – COMPLETE EDITION” DI KEN’ICHI UGANA

I mostri non muoiono mai, così come i film gore che vengono sventrati, trucidati e spappolati, ricuciti e sfruttati infinite volte, senza poter mai esalare l’ultimo respiro. Qualche volta i pezzi che restano vengono rappezzati, e ci si aggiunge dentro altro. Forse con la pretesa di rendere tutto più consistente, o probabilmente per trovare nuove soluzioni narrative che, in fondo, sono sempre le stesse. Improvvisamente, ad esempio, ci si può ritrovare davanti a uno zombie che serve il tè: le immagini oscene divengono puro divertissment, per trasformarsi poi in una serie di feticci che vivono indisturbati. Questo è il motivo per cui autori come Ken’ichi Ugana fanno e scrivono ancora – in maniera non scontata e intelligente –film horror. Ed è anche il motivo per cui film come Visitors – Complete Edition, o il suo predecessore Extraneous Matter – Complete Edition, popolano ancora le sale dei festival cinematografici internazionali.

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“NON RIATTACCARE” DI MANFREDI LUCIBELLO

“Ho preso la macchina, poi ti spiego”. Un messaggio diretto e conciso che Irene (Barbara Ronchi) lascia al suo attuale ragazzo prima di abbandonare l’appartamento e dirigersi frettolosamente verso il veicolo. In una notte primaverile, nel bel mezzo della pandemia, la donna è costretta a guidare da Roma verso Santa Marinella nel tentativo di impedire al suo ex fidanzato Pietro (Claudio Santamaria) di togliersi la vita. Le autostrade desolate fanno da sfondo all’odissea di Irene, al suo viaggio contro il tempo, mentre la linea telefonica lascia in sospeso la flebile voce del suo vecchio amante.

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Una tensione irrefrenabile si consolida gradualmente in “Non Riattaccare” – opera seconda di Manfredi Lucibello e unico film italiano in concorso al Torino Film Festival. Una suspense che si sviluppa lentamente e rimane costante, senza mai sfociare in un climax; resta saldamente legata alla fragile quotidianità di una coppia che, come molte altre, ha dovuto affrontare la solitudine e la distanza causate dal lockdown. Tuttavia, tra Irene e Pietro si apre un abisso: per mostrarcelo Lucibello, e il suo co-sceneggiatore Jacopo Del Giudice, si servono del volto stanco e sofferente di Barbara Ronchi, capace di sostenere da solo il peso dell’intera narrazione.

In un’intervista il regista ha dichiarato che il viaggio di Irene non ha forse l’obiettivo di salvare Pietro, quanto piuttosto di salvare sé stessa. Una considerazione confermata dal modo in cui la macchina da presa mette costantemente alla prova il corpo della donna, seguendolo quasi morbosamente sin dai primissimi istanti del film. Irene può salvarsi ma deve farlo da sola. Pietro è soltanto una voce mentre il martirio di lei è concreto, così come lo sono tutti gli ostacoli che li separano in quei 60 km di strada, in un mondo completamente immobilizzato. Con questo nuovo thriller, Lucibello conferma nuovamente la sua abilità di narratore, e riesce ad ingannarci con un falso dialogo tra due ex amanti, che si rivela invece essere uno straziante monologo tra una donna e i fantasmi del suo passato.

Luca Giardino

articolo pubblicato su “la Repubblica” il 27 novembre 2023

“MANDOOB – NIGHT COURIER” BY ALI KALTHAMI

Article by Elena Bernardi

Translation by Fabio Castagno

From the beginning,  the director Ali Kalthami explains to the audience the double connotation of the Arabic word “Mandoob”, which means “courier” but also “a person pitied for his misery and tragic end”. Mandoob – Night Courier – part of the feature film competition of the 41st edition of Torino Film Festiva – turns the same double meaning of the word into an ambiguous thriller connotated by a strong sense of humor, which shows the power of desperation in the protagonist’s misadventures.

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“MANDOOB – NIGHT COURIER” DI ALI KALTHAMI

Il regista Ali Kalthami esplicita fin da subito al proprio pubblico la doppia connotazione della parola “Mandoob” che in arabo significa sì “corriere”, ma anche “un individuo compianto per la sua miseria e tragica fine”. Quest’ambivalenza e duplicità semantica in Mandoob – The night Courier – presentato in concorso alla 41° edizione del Torino Film Festival – diventa anche la dualità di un thriller connotato da una forte vena umoristica, che racconta il potere della disperazione nelle disavventure del protagonista.

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“KALAK” BY ISABELLA EKLÖF

Article by Marta Faggi

Translation by Rebecca Lorusso

Kalak’s Greenland is endless. The deep fjord inlets are topped by steep, snow-capped mountain walls. Kulusuk is a small village in East Greenland, made up of a few isolated houses with sloping roofs and bright colors. Jan (Emil Johnsen) takes refuge in Kulusuk with his wife and children, after life in Nuuk has become intolerable. This is not the first time Jan has run away from something: before living in Greenland, he lived in Denmark with his father. He always runs away from himself and his past, in a stressed search for a sense of belonging and community.

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“KALAK” DI ISABELLA EKLÖF

La Groenlandia di Kalak è sterminata: le profonde insenature dei fiordi sono sormontate da ripide e scoscese pareti montuose, con le cime innevate. Kulusuk, piccolo villaggio della Groenlandia orientale, è composto da poche case isolate, dai tetti spioventi e dai colori sgargianti. È a Kulusuk che Jan (Emil Johnsen) si rifugia, con moglie e figli, dopo che la vita nella capitale, Nuuk, è diventata insostenibile. Non è la prima volta che Jan fugge da qualcosa: prima di vivere in Groenlandia, viveva in Danimarca, con il padre. Scappa da se stesso e dal proprio passato, alla spasmodica ricerca di un senso di appartenenza, di una collettività.

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“ARRÊTE AVEC TES MENSONGES” DI OLIVIER PEYON

“I migliori adattamenti sono i migliori tradimenti”: con queste parole Philippe Besson, autore del romanzo Arrête avec tes mensonges, si rivolge ad Olivier Peyon, regista dell’omonimo film in concorso alla 38esima edizione del Lovers Film Festival. Un racconto a ritroso che ripercorre il primo amore del protagonista Stéphane, uno scrittore di successo ritornato al paese di origine. L’incontro con Lucas, il figlio del suo amato, risveglierà in lui i ricordi di un amore segreto, per anni tenuto in vita dai suoi racconti di finzione.

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“PAMFIR” BY DMYTRO SUKHOLYTKYY-SOBCHUK

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

Article by: Francesco Ghio

“So Abraham got up early in the morning, saddled his donkey, and took two of his young men with him and his son Isaac; and he split the wood for the burnt offering, and then he got up and went to the place of which God had told him.” Genesis 22:3

The biblical account shows that Abraham, moved by great faith, had no hesitation. Leonid, however, is a pagan, Leonid does not believe. And in order to offer the best future to his progeny, he is willing to transgress ethical norms and human laws, consequently going so far as to defy God.

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“PAMFIR” DI DMYTRO SUKHOLYTKYY-SOBCHUK

“Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato” Genesi 22:3

Il racconto biblico dimostra che Abramo, mosso da una grande fede, non ebbe esitazioni. Leonid però è pagano, Leonid non crede. E pur di offrire il futuro migliore alla propria progenie è disposto a trasgredire norme etiche e leggi umane, arrivando di conseguenza a sfidare Dio.

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“WAR PONY” BY RILEY KEOUGH AND GINA GAMMELL

Written by: Fabio Bertolotto

Translated by: Rebecca Arturo

Presented and competing at the fortieth edition of Torino Film Festival, and already winner of the Camera d’Or at Cannes, competing in the Un Certain Regard section, War Pony marks the directing debut of actress Riley Keough and producer Gina Gammell, featuring an inspiring portrait of the Native American community, directly involved in the making of the film. 

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“PALM TREES AND POWER LINES” DI JAMIE DACK

Don’t murder me, ok?”. Con queste parole Lea (Lily McInerny), una giovane ragazza diciassettenne, risponde alla proposta di Tom (Jonathan Tucker), un uomo di trentacinque anni, di accompagnarla a casa in macchina dopo una brutta serata con gli amici. Il tono con cui Lea pronuncia la frase è ironico, ma il suo sguardo perso nel vuoto cela una reticenza di fondo. Forse, in quel breve istante di spensierata interdizione è racchiuso il nucleo di Palm Trees and Power Lines, opera prima di Jamie Dack, già vincitrice del premio alla miglior regia al Sundance Film Festival 2022 e presentata in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

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Il film presenta uno scorcio della vita di Lea durante le ultime settimane estive prima che ricominci la scuola: la sua quotidianità nella suburbia americana l’annoia, i suoi amici sono infantili e immaturi e il rapporto con la madre Sandra (Gretchen Mol) – unico membro della sua famiglia – è sempre più teso. L’incontro con Tom scuote la ragazza e le offre una via di fuga dalla sua realtà; Lea è affascinata da un uomo più grande ma allo stesso tempo non si lascia completamente andare. Tom si comporta come il fidanzato perfetto: la corteggia, le fa regali e la porta al mare, ma cela un lato oscuro che Lea decide di ignorare e che la porterà a fare i conti con un doloroso trauma nel finale.

L’intento politico del film è chiaro ma non offusca né la forma né il contenuto. L’opera, infatti, si misura con questioni spigolose come l’adescamento minorile e la difficile realtà di molte famiglie della periferia americana – proprio al personaggio di Lea sono delegate alcune delle battute più gravose come, rivolta alla madre: “Certa gente non dovrebbe avere il diritto di fare figli” – e, allo stesso tempo, offre delle soluzioni formali piuttosto insolite del dramma coming of age. Jamie Dack, infatti, rinuncia a virtuosismi stilistici per offrire una regia sobria e senza sbavature, dimostrando di voler comunicare una necessità, anzi un’urgenza nel narrare determinati eventi piuttosto che soffermarsi sulla componente visiva. Lo sguardo pulito e statico della cinepresa di Dack non solo offre nuove possibilità alla rappresentazione del genere, ma mette in mostra l’originalità del lavoro della regista e il coraggio con cui afferma una personale e autentica visione già a partire dalla sua prima opera.

Luca Giardino

“PALM TREES AND POWER LINES” BY JAMIE DACK

Written by: Luca Giardino 

Translated by: Simone Gasparini

“Don’t murder me, okay?” With these words Lea (Lily McInerny), a 17-year-old girl, responds to the proposal of Tom (Jonathan Tucker), a man in his mid-30s, to drive her home after a bad night out with friends. The tone in which Lea utters the sentence is ironic, but her lost gaze conceals an underlying reticence. Perhaps contained in that moment of carefree interdiction is the core of Palm Trees and Power Lines, Jamie Dack’s debut feature, which has already won Best Director at the 2022 Sundance Film Festival and was presented in competition at the 40th Turin Film Festival.

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The film presents a glimpse of Lea’s life during the last weeks of summer before school starts again: her everyday life in the American suburbia bores her, her friends are childish and immature, and her relationship with her mother Sandra (Gretchen Mol) – the only member of her family – is becoming more tense. Meeting Tom shakes the girl up and offers her an escape from her reality. Lea is fascinated by the fact that Tom is older but at the same time she does not let herself go completely. Tom acts like the perfect boyfriend: he woos her, gives her gifts, and takes her to the beach, but he hides a dark side that Lea decides to ignore and that will lead her to come to terms with a painful trauma in the finale.

The political intent of the film is clear but does not cloud either the form or the content. The work, in fact, deals with such edgy issues as child grooming and the difficult reality of many families in the American suburbs. Furthermore, it also features many burdensome lines, the majority of which are delegated to Lea’s character. To bring an example, she says, referring to her mother, “Some people shouldn’t have the right to have children”. At the same time, the work offers some rather unusual formal solutions of the coming-of-age drama. Jamie Dack, in fact, forgoes stylistic virtuosity to offer understated, unadulterated direction, demonstrating a desire to communicate a need, indeed an urgency in narrating certain events rather than dwelling on the visual component. The clean, static look of Dack’s camera not only offers new possibilities to the representation of the genre, but also showcases the originality of the director’s work and the courage with which she affirms a personal and authentic vision even from her first work.

“WAR PONY” DI RILEY KEOUGH E GINA GAMMELL

Presentato in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival, già vincitore della Camera d’Or a Cannes, dove concorreva nella sezione Un Certain Regard, War Pony segna l’esordio alla regia dell’attrice Riley Keough e della produttrice Gina Gammell, con un appassionante ritratto della comunità di nativi americani coinvolta direttamente nella realizzazione del film.

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“LE BRUIT DES MOTEURS” BY PHILIPPE GRÉGOIRE

Article by Davide Gravina

Translated by Valerio Copponi

Never-ending opening credits, accompanied by shots of race cars burning rubber and going around in endless circles open the first feature film by Philippe Grégoire, premiered in competition at TFF39. The film, without sacrificing its biting humour, recounts a piece of Alexander Mastrogiuseppe’s life (Robert Naylor), a boy raised in Napierville, a remote and forgotten Canadian village, who leaves his birthplace to go work as a customs officer on the border between the US and Canada. Grégorie describes the same path which he has walked himself, going from living in his hometown to working as a customs officer, to be able to pay for his film studies. Migration towards a different world is just one of many points of contact between the director’s life and the protagonist’s. Indeed, he focuses on the cultural background to which he is bound, thanks to the racetrack built by his grandparents in Napierville.

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“LE BRUIT DES MOTEURS” DI PHILIPPE GRÉGOIRE

Infiniti titoli di testa, accompagnati da immagini di macchine da corsa che, sgommando, compiono infiniti giri su sé stesse, aprono il primo lungometraggio di Philippe Grégoire, presentato in concorso al TFF39. Il film, non rinunciando a un pungente umorismo, racconta uno squarcio della vita di Alexander Mastrogiuseppe (Robert Naylor), cresciuto a Napierville, sperduto e dimenticato paesino canadese, che si allontana dal suo luogo natale per lavorare alla dogana tra U.S.A. e Canada. Grégorie racconta lo stesso percorso che ha vissuto lui passando dalla vita nel suo paesino natio al lavoro come doganiere per potersi pagare gli studi di cinema. La migrazione verso un mondo altro è solo uno dei punti di contatto tra la vita del regista e quella del protagonista. Grégorie si concentra infatti proprio su quell’humus culturale cui lui stesso è legato grazie alla pista per gare automobilistiche che i suoi nonni costruirono a Napierville.

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“CASA DE ANTIGUIDADES” DI JOÃO PAULO MIRANDA MARIA

Ancora prima delle immagini, è una luce bianca a suggerire le coordinate per la visione del film. Una luce che invade lo schermo e appare come un eccentrico sostituto del nero, su cui i titoli di testa scorrono al contrario, dall’alto verso il basso, suggerendo un percorso a ritroso. È proprio questo moto inverso lo spirito che muove Casa de antiguidades, del registra brasiliano João Paulo Miranda Maria, un’opera prima che guarda al passato per parlare del presente.

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“MOVING ON” BY YOON DAN-BI

Article by Alessandro Pomati

Translated by Paola Macchiarella

“I long that far away place, where my loved ones come from”: these song lyrics open “Moving on”, first Yoon Dan-bi work, winner of four awards at the Busan International Short Film Festival. These lyrics seem to suggest a return to the roots for the director, back to her starting point.

And this is also what happens to the main characters of Yoon’s film, a brother and a sister who leave the house of their divorced father, a humble street vendor selling knockoff designer shoes. The children move to their grandfather’s, a suffering old man who is often hospitalized.

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“MOVING ON” DI YOON DAN-BI

“Bramo quel luogo lontano, dove vivono i miei cari”: su questi versi di una canzone si apre “Moving On”, opera prima di Yoon Dan-bi, premiata con ben 4 premi all’ultima edizione del festival di Busan. Versi che sembrano indicare un ritorno, per chi li ha scritti, alle proprie origini, al proprio nucleo di partenza.

Ed è proprio questo che accade ai due protagonisti, fratello e sorella, del film di Yoon quando, abbandonata la casa del padre divorziato, un modesto venditore ambulante di imitazioni di scarpe di marca, si trasferiscono nella casa del nonno paterno, un anziano sofferente e spesso costretto al ricovero in ospedale.

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“EL HOYO – THE PLATFORM” DI GALDER GAZTELU-URRUTIA

Ricorda, caro mio Sancho, chi ha di più deve fare di più.

Sono profondamente d’accordo. Potesse spiegarglielo Quijote agli “ospiti” dell’hoyo.

Goreng (Ivan Massagué) però lo sa bene. Ha scelto di portare con sé proprio il libro di Cervantes. Divide la stanza al 48esimo piano della Torre con il vecchio Trimagasi (Zorion Eguileor) e ogni mese si svegliano collocati in un piano diverso: chi sta più in su ha accesso ad una maggiore quantità di cibo, chi sta giù deve accontentarsi degli avanzi ma i poveri diavoli del fondo sono costretti al cannibalismo per sopravvivere, talvolta al suicidio a causa dell’ingordigia di chi sta sopra di loro. Il numero dei livelli, tuttavia, rimane sconosciuto.

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“EL HOYO – THE PLATFORM” BY GALDER GAZTELU-URRUTIA

Article by: Roberto Guida
Translated by: Giorgia Bellini

Remember, my dear Sancho, who has more needs to do more.

I totally agree. I just wish Quijote could explain that to hoyo’s “guests”.

But Goreng (Ivan Massagué) knows it well, in fact he chose to take Cervantes’ book with him. He shares the Tower’s 48th floor room with the old Trimagasi (Zorion Eguileor), but every month they wake up on a different floor. Apparently, only who is on the highest floor have access to food, while people on the lower floors have to feed on the leftovers, and the poor devils at the bottom are forced to cannibalism in order to survive – or, even worse, to commit suicide due to the lack of food. Still, the number of these levels remains unknown.

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