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“KUBI” DI KITANO TAKESHI

Dal buio della sala, allo sguardo è concesso di contemplare le sponde di un piccolo fiume immerso nel verde, ma quello che sembra un limpido corso d’acqua è in realtà un ammasso di fanghiglia e cadaveri dilaniati, resti di una battaglia appena conclusa. Con Kubi, Kitano Takeshi torna alla regia con un dramma storico ambientato nel Giappone feudale, esattamente vent’anni dopo il grande successo di Zatōichi (2003), dedicato all’epopea del samurai cieco.

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“VINCENT DOIT MOURIR” DI STÈPHAN CASTANG

La violenza scaturisce dagli occhi di chi guarda: a Vincent (Karim Leklou), per essere aggredito, basta incrociare lo sguardo di qualcuno. Questa – banale – azione quotidiana è foriera, in Vincent doit mourir, di una crudeltà senza fine, destinata a protrarsi di giorno in giorno, ogni volta con modalità inedite. La violenza si diffonde, in modo quasi epidemico, tramite attacchi scomposti e impacciati di civili totalmente inadatti al combattimento. Si innesca così una follia che ha una venatura grottesca: queste persone vogliono disperatamente uccidere Vincent ma, al tempo stesso, ne sono incapaci.

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“THE COMPLEX FORM” DI FABIO D’ORTA

«A me basta che i soldi siano veri» pronuncia il protagonista, un uomo che, come altri, si è recato in una lussuosa villa ottocentesca per vendere il proprio corpo a entità misteriose in cambio di denaro. Uomini disperati disposti a sottomettersi all’ignoto pur di migliorare la propria condizione. The Complex Form, esordio del regista Fabio D’Orta, inserito nella sezione Crazies del Torino Film Festival 41, ci trascina in un’attesa estenuante che sembra non risolversi mai.

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“CHRISTINE – LA MACCHINA INFERNALE” DI JOHN CARPENTER

La 41ª edizione del Tff termina con la proiezione di Christine – La macchina infernale, horror del 1983 con cui Steve Della Casa decide di concludere i suoi due anni di direzione del festival. La scelta non è casuale: il film di John Carpenter fece parte, più di vent’anni fa, di una delle retrospettive dedicate ai cineasti americani poco compresi e un po’ snobbati dalla critica, come George Romero e John Milius. A quarant’anni dall’uscita nelle sale, Della Casa propone una lettura diversa di uno degli horror più riusciti e sottovalutati di Carpenter, tratto da uno dei romanzi più belli e trascurati di Stephen King. Un’opera rimasta in disparte, all’ombra dei film più noti del regista, come La cosa (The Thing, 1982) o Halloween (1978).

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“Folle d’amore: Alda Merini” di Roberto Faenza

Non matta, ma piena di un’incompresa vitalità. Alda Merini, la donna che fece della poesia oggetto di amore e ossessione, tormento e follia, è la protagonista di Folle d’amore: Alda Merini, presentato fuori concorso alla 41° edizione del TFF. Il ritratto della poetessa e della donna dà voce a una figura che, più di tante altre, urla alle nuove generazioni la necessità e l’urgenza di esprimersi, a cui non ha mai rinunciato, nemmeno negli anni del manicomio. 

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“DO NOT EXPECT TOO MUCH FROM THE END OF THE WORLD” DI RADU JUDE

Tra le molte strade che percorrono il territorio rumeno, una in particolare gode di una certa popolarità: è la Transfăgărășan, anche nota come “la follia di Ceaușescu”, 60 miglia che si snodano attraverso le vette più scoscese della Romania. Il sinistro appellativo con cui viene ricordata, in palese contraddizione rispetto ai panorami mozzafiato che attraversa, risale ai tempi della sua edificazione e vuole essere un ricordo degli operai morti per il completamento del folle progetto. Ma la Transfăgărășan è solo una delle tante. Rispetto alle altre opere di ingegneria civile cadute nel dimenticatoio, ha la fortuna di avere dalla propria la bellezza, e quella si sa, piace a tutti, vende sempre bene.

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“WHITE PLASTIC SKY” DI TIBOR BÁNÓCZKI E SAROLTA SZABÓ

Il mondo tra cento anni. Nella Budapest del 2123 le persone sono costrette a donare il proprio corpo per il bene comune. La crisi ambientale ha infatti devastato il pianeta, ormai ridotto a una distesa arida su cui non cresce più nulla. Per questo motivo viene progettato un seme che, una volta impiantato, può trasformare l’essere umano in albero. Per la sopravvivenza dell’umanità, chiunque compia cinquant’anni deve subire questo processo.

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“GIRASOLI” di Catrinel Marlon

Nella sezione “La prima volta” del Torino Film Festival è stato presentato l’esordio alla regia della madrina della manifestazione Catrinel Marlon, attrice ed ex modella di origine romena. Il film, Girasoli, di cui è anche co-sceneggiatrice, nasce da una sua intima necessità, dalla volontà di portare sullo schermo una tematica a lei vicina: la malattia mentale.

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Negli anni Sessanta i manicomi esistono ancora: sono luoghi grigi e cupi, le cui pareti trasudano dolore mentale e fisico a causa delle pene corporali, delle “cure” e delle misere condizioni di vita. Sono luoghi in cui si viene rinchiusi e dimenticati per sempre oppure, prima o poi, rigettati nella società. Lucia (Gaia Girace) è una quindicenne schizofrenica, ricoverata da diversi anni presso l’ospedale psichiatrico Santa Teresa di Lisieux, ma non ancora completamente schiacciata dalla vita e dalle terapie. Anna (Mariarosaria Mingione), orfana cresciuta in convento e appena maggiorenne, viene trasferita all’ospedale psichiatrico per diventare infermiera. Una volta giunta nel manicomio deve scegliere da che parte stare: seguire la dottoressa Marie D’amico (Monica Guerritore), donna all’avanguardia nello sperimentare nuove terapie ispirate alle teorie di Franco Basaglia, o conformarsi a quell’ambiente all’epoca prettamente maschile e di vedute ristrette, che crede solo nelle pillole e nell’elettroshock. Dalla scelta di Anna dipenderà il futuro di Lucia e la sua possibilità di salvarsi.


Catrinel Marlon riesce ad affrontare con sguardo autentico una tematica complessa e delicata, ispirata a una storia realmente accaduta. Il racconto è crudo, ma la regista non si sofferma sugli aspetti più degradanti della vita manicomiale, evitando di cadere in una patetica spettacolarizzazione della sofferenza, della reclusione e del dolore. Una narrazione incisiva e puntuale, arricchita da un altro tema centrale di Girasoli: l’amore, il potentissimo mezzo che permette di evadere – anche quotidianamente – da quelle mura soffocanti.

Carlotta Pegollo

articolo pubblicato su “la Repubblica” il 26 novembre 2023

“YOU HURT MY FEELINGS” DI NICOLE HOLOFCENER

Fuori concorso, You Hurt My Feelings è l’ultima brillante commedia della regista e sceneggiatrice statunitense Nicole Holofcener che in punta di piedi e con un’ironia calibrata, mette in scena la complessità e la fragilità delle relazioni umane.

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“LINDA VEUT DU POULET!” di Chiara Malta e Sébastien Laudenbach

Il Torino Film Festival è tornato per la 41° edizione a illuminare gli schermi delle sale della citta. La scelta di un film d’animazione come apertura del concorso lungometraggi conferma lo spirito innovatore per cui è noto il festival.

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“LE RÈGNE ANIMAL” DI THOMAS CAILLEY

In un presente alternativo, parte della popolazione è colpita da una mutazione che trasforma le persone in creature ibride, in uomini-animali. Non si conoscono le cause né le ragioni. Si sa solo che le vittime di questa malattia possono mettere a rischio l’ordine e la sicurezza pubblica e che, quindi, devono essere controllate, rinchiuse in riserve appositamente costruite, separate dalla società civile. 

Il regista francese Thomas Cailley in Le règne animal, presentato nella sezione Crazies, ci racconta la creazione di un mondo in cui stanno cambiando le frontiere tra ciò che è umano e ciò che è animale. Un cambiamento vissuto dagli intimi punti di vista di un padre (Romain Duris) e di un figlio Émile (Paul Kircher), entrambi affranti per la scomparsa della moglie (e madre), mutata in una di queste creature. Il film mostra l’accettazione di una realtà tanto brutale quanto rappresentativa di un orizzonte in cui l’uomo è chiamato a stabilire un rapporto di convivenza pacifica con gli altri esseri viventi.

Le règne animal è anche il racconto della crescita di Émile e del suo assecondare un destino di trasformazione – un coming of age atipico, accompagnato dai picareschi brani del musicista torinese Andrea Laszlo De Simone. Émile corre tra gli alberi della foresta in cui trascorre le giornate, caccia, nuota nella palude, e urla a pieni polmoni quel grido di libertà che è espressione della natura stessa che cerca di sopravvivere alla dominazione dell’uomo. Il ragazzo ribalta l’immagine che la cosiddetta società civilizzata crea attorno alle creature ibride, facendosi esempio di come la metamorfosi in animale non sia brutalizzazione di sé, ma liberazione dalle leggi distruttive del sistema. Così, Émile, accettando se stesso come parte del règne animal, riflette e comunica nuove prospettive sull’emergenza ecologica. Nuovi modi – resistenti alle dinamiche di potere e di controllo sulla natura – di re-immaginare il rapporto con l’ecosistema.

Federico Lionetti

Articolo pubblicato su “la Repubblica” il 3 dicembre 2023

“MUMMOLA” DI TIA KOUVO

Il termine “mummola” in finlandese si riferisce alla casa della nonna, ma non si limita a indicare il mero luogo fisico. “Mummola” è la meta delle vacanze natalizie per tutta la famiglia, è un insieme di odori e sapori, un luogo sicuro e accogliente il cui ricordo provoca sempre una gradevole nostalgia, anche quando la famiglia non è proprio perfetta e unita. I ricordi della regista Tia Kouvo – che sceglie la sua città natale come location – prendono vita nel suo film d’esordio, sviluppato con il supporto del TorinoFilmLab e presentato alla 41° edizione del Torino Film Festival.  

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“A STRANGER QUEST” DI ANDREA GATOPOULOS

Tracciare i confini di una mappa significa indagare il mondo conosciuto e, soprattutto, rivolgere il nostro sguardo verso l’ignoto. Ruotano intorno a questo le domande che Andrea Gatopoulos lascia che l’intelligenza artificiale ponga a David Rumsey, uno dei più grandi collezionisti di mappe del mondo. Il primo lungometraggio del regista abruzzese conclude una trilogia dedicata al rapporto tra uomo e macchina costituita dai due cortometraggi Happy New Year, Jim (2022) ed Eschaton Ad (2023).

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“INSIDE THE YELLOW COCOON SHELL” DI THIEN AN PHAM

A Saigon, in un bar affollato per i mondiali di calcio di Russia 2018, tre ragazzi discutono sull’esistenza di Dio. Uno è ateo, un altro è convinto di poter trovare una sua testimonianza avvicinandosi alla natura e il terzo, Thien (Le Phong Vu), non riesce a trovare la fede nonostante lo desideri. Questa e tantissime altre “invocazioni” stabiliscono il vero obiettivo del viaggio che inizierà di lì a poco: il tentativo di trovare anche una piccolissima traccia immanente della grandezza del divino. Ciò che stupisce – ed è bene dirlo subito – è l’intuizione di Thien An Pham, qui al suo esordio, di non limitarsi ad assecondare l’indagine del suo protagonista ma di arricchire questo dialogo teologico con la sua personale osservazione effettuata tramite il mezzo cinematografico.  

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“VISITORS – COMPLETE EDITION” DI KEN’ICHI UGANA

I mostri non muoiono mai, così come i film gore che vengono sventrati, trucidati e spappolati, ricuciti e sfruttati infinite volte, senza poter mai esalare l’ultimo respiro. Qualche volta i pezzi che restano vengono rappezzati, e ci si aggiunge dentro altro. Forse con la pretesa di rendere tutto più consistente, o probabilmente per trovare nuove soluzioni narrative che, in fondo, sono sempre le stesse. Improvvisamente, ad esempio, ci si può ritrovare davanti a uno zombie che serve il tè: le immagini oscene divengono puro divertissment, per trasformarsi poi in una serie di feticci che vivono indisturbati. Questo è il motivo per cui autori come Ken’ichi Ugana fanno e scrivono ancora – in maniera non scontata e intelligente –film horror. Ed è anche il motivo per cui film come Visitors – Complete Edition, o il suo predecessore Extraneous Matter – Complete Edition, popolano ancora le sale dei festival cinematografici internazionali.

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MEZZOGIORNO DI FUOCO – RETROSPETTIVA SU JOHN WAYNE

Lo studioso Yves Kovacs individuava in John Wayne la quint’essenza della Hollywood classica. Un attore che in ogni ruolo riflette una componente monolitica, burbera e un po’ disillusa, ma anche un’aura mitica che, nel corso degli anni, ha reso Wayne il simbolo del cinema americano. I personaggi interpretati da Duke si eclissano dietro il suo sguardo glaciale e il perentorio tono di voce capace di mettere fine a qualsiasi discussione; ma soprattutto invecchiano assieme a lui, si confondono con la sua vita fino ad alterarne l’identità. Sarà proprio l’attore ad ammettere che in ogni film il suo ruolo è quello di interpretare John Wayne, senza curarsi troppo del personaggio. La sua immagine si è costruita sulla ripetizione dei codici di un unico genere e pensare a John Wayne oggi vuol dire pensare al cinema Western stesso.

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La seconda (e ultima) edizione del Torino Film Festival non poteva che concludersi con una retrospettiva su John Wayne, attore molto amato dal direttore Della Casa che ha deciso di riproporre in sala alcuni dei titoli più apprezzati nella sua infinita carriera. In ordine cronologico troviamo il capolavoro di Raul Walsh Il grande sentiero (The Big Trail) del 1930: il primo ruolo importante della carriera di Wayne, ma anche grande flop al botteghino che relegherà il genere western alle produzioni di serie B prima di essere “salvato” da John Ford con Ombre Rosse (Stagecoach, 1939). Successivamente troviamo Il fiume rosso (Red River, 1948), uno degli splendidi western girati dalla volpe di Hollywood Howard Hawks. Sarebbe scontato elencare i temi, ormai codificati, che si possono ritrovare nel repertorio hawksiano come l’amicizia virile che sfocia in una velata omosessualità, la morale della tenacia e della dignità. Per apprezzare Il fiume rosso basterebbe soffermarsi su una delle più belle panoramiche della storia del cinema, in cui Wayne scruta la vallata per poi esclamare «take’em to Missouri Matt!».

In una retrospettiva su Wayne non può naturalmente fare a meno di John Ford, il padre del cinema Western e grande amico dell’attore: il TFF porta sugli schermi due film del maestro, I cavalieri del Nord Ovest (She Wore a Yellow Ribbon, 1949) e I tre della Croce del Sud (Donovan’s Reef, 1963). Il primo fa parte della trilogia sulla cavalleria statunitense, mentre il secondo è un’opera piuttosto sconosciuta del repertorio di Wayne e di Ford, realizzata – si dice – come pretesto per una vacanza nei mari del Sud. In seguito, troviamo Hondo di John Farrow del 1953, ispirato a un racconto dello scrittore Louis L’Amour ed esordio sul grande schermo di Geraldine Page; una divertente commedia di Henry Hathaway, Pugni pupe e pepite (North to Alaska, 1960) dove Wayne dà il meglio di sé come attore comico tra i ghiacci dell’Alaska; e infine l’ultima fatica dell’attore, ovvero il western crepuscolare di Don Siegel, Il pistolero (The Shootist, 1976).

Sospeso tra tradizione e ironia, il film di Siegel si apre con un omaggio (quasi elegiaco) all’attore, con una carrellata di scene dei vecchi film interpretati da Wayne, montate ad hoc per sottolineare le abilità da pistolero del suo personaggio J.B. Books. Un film che si misura dunque con la storia del cinema ma anche con la realtà dal momento che tutto il film ruota attorno al tumore di Books, la stessa malattia che colpisce Wayne in quegli anni. Il pistolero e l’attore sono prossimi alla fine, e non c’è un addio più consono se non una sparatoria in un saloon (tutta girata in campi lunghi) dove Wayne riscrive il suo destino, “aggiustando” la realtà attraverso la finzione e regalandosi un’uscita di scena maestosa, degna del suo personaggio: nel finale non si lascia vincere dalla malattia, ma viene ucciso con un colpo di pistola.

Luca Giardino

“NON RIATTACCARE” DI MANFREDI LUCIBELLO

“Ho preso la macchina, poi ti spiego”. Un messaggio diretto e conciso che Irene (Barbara Ronchi) lascia al suo attuale ragazzo prima di abbandonare l’appartamento e dirigersi frettolosamente verso il veicolo. In una notte primaverile, nel bel mezzo della pandemia, la donna è costretta a guidare da Roma verso Santa Marinella nel tentativo di impedire al suo ex fidanzato Pietro (Claudio Santamaria) di togliersi la vita. Le autostrade desolate fanno da sfondo all’odissea di Irene, al suo viaggio contro il tempo, mentre la linea telefonica lascia in sospeso la flebile voce del suo vecchio amante.

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Una tensione irrefrenabile si consolida gradualmente in “Non Riattaccare” – opera seconda di Manfredi Lucibello e unico film italiano in concorso al Torino Film Festival. Una suspense che si sviluppa lentamente e rimane costante, senza mai sfociare in un climax; resta saldamente legata alla fragile quotidianità di una coppia che, come molte altre, ha dovuto affrontare la solitudine e la distanza causate dal lockdown. Tuttavia, tra Irene e Pietro si apre un abisso: per mostrarcelo Lucibello, e il suo co-sceneggiatore Jacopo Del Giudice, si servono del volto stanco e sofferente di Barbara Ronchi, capace di sostenere da solo il peso dell’intera narrazione.

In un’intervista il regista ha dichiarato che il viaggio di Irene non ha forse l’obiettivo di salvare Pietro, quanto piuttosto di salvare sé stessa. Una considerazione confermata dal modo in cui la macchina da presa mette costantemente alla prova il corpo della donna, seguendolo quasi morbosamente sin dai primissimi istanti del film. Irene può salvarsi ma deve farlo da sola. Pietro è soltanto una voce mentre il martirio di lei è concreto, così come lo sono tutti gli ostacoli che li separano in quei 60 km di strada, in un mondo completamente immobilizzato. Con questo nuovo thriller, Lucibello conferma nuovamente la sua abilità di narratore, e riesce ad ingannarci con un falso dialogo tra due ex amanti, che si rivela invece essere uno straziante monologo tra una donna e i fantasmi del suo passato.

Luca Giardino

articolo pubblicato su “la Repubblica” il 27 novembre 2023

“MARIANNE” DI MICHAEL ROZEK

L’esordio alla regia di Michael Rozek è un racconto intimo e insieme universale. Un’architettura metacinematografica ardita ma coinvolgente che grazie alla presenza consapevole e fragile di Isabelle Huppert riesce a proporre una profonda riflessione sulla recitazione e sul cinema, sull’arte e sul tempo.

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“YANNICK” DI QUENTIN DUPIEUX

Una musica off dalla tonalità straordinariamente soave esce da un pianoforte sia all’inizio sia alla fine del film di Quentin Dupieux, in arte Mr. Oizo: è il sottofondo musicale ideale per accompagnare con grazia un’opera cinematografica meta-artistica da cui, seppur in maniera immancabilmente comica (come ormai ci ha abituato il gusto per l’assurdo e per il nonsense del regista), traspare un messaggio per e sull’arte che, lungi dall’essere fuori posto nella filmografia del regista, ben si amalgama alla denuncia della situazione ambientale di Fumer Fait Tousser (2022), al rapporto amicale di Mandibules – Due uomini e una mosca (2020) e all’estremo feticismo per le giacche scamosciate di Doppia pelle (2019).

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