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“A MACHINE TO LIVE IN” DI YONI GOLDSTEIN E MEREDITH ZIELKE

«Per un momento, immaginiamo insieme un sogno», ci viene detto all’inizio di A Machine To Live In, opera prima diretta da Yoni Goldstein e Meredith Zielke e presentata al Torino Film Festival nella sezione TFFDOC/Paesaggio. Il sogno di cui il film vuole farci partecipi è quello di Brasilia, capitale del Brasile costruita in mille giorni dove prima c’era solo una nuda pianura: voluta dal presidente Kubitschek, pianificata e progettata dagli architetti Lúcio Costa e Oscar Niemeyer, fu presentata alla sua inaugurazione nel 1960 come un’utopia divenuta realtà. Scintillante esempio di architettura modernista, Brasilia è una città con molte curve, molti triangoli, molto bianco, molti specchi e «completamente senza ombre». Per questo sembra che la sua configurazione aumenti l’incidenza dei raggi ultravioletti causando molti casi di disabilità visive. Bisogna accettare di vedere meno se si vuole vivere in un sogno. Continua la lettura di “A MACHINE TO LIVE IN” DI YONI GOLDSTEIN E MEREDITH ZIELKE

“MOVING ON” DI YOON DAN-BI

“Bramo quel luogo lontano, dove vivono i miei cari”: su questi versi di una canzone si apre “Moving On”, opera prima di Yoon Dan-bi, premiata con ben 4 premi all’ultima edizione del festival di Busan. Versi che sembrano indicare un ritorno, per chi li ha scritti, alle proprie origini, al proprio nucleo di partenza.

Ed è proprio questo che accade ai due protagonisti, fratello e sorella, del film di Yoon quando, abbandonata la casa del padre divorziato, un modesto venditore ambulante di imitazioni di scarpe di marca, si trasferiscono nella casa del nonno paterno, un anziano sofferente e spesso costretto al ricovero in ospedale.

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“WILDFIRE” DI CATHY BRADY

Intimista e al contempo politico, l’esordio al lungometraggio della regista Brady mostra l’impatto psicologico transgenerazionale del conflitto nordirlandese attraverso la storia di due sorelle.

Girato al confine tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda, il film prende avvio quando Kelly (Nika McGuigan), scomparsa in seguito alla morte della madre, ritorna all’improvviso nella piccola cittadina da cui era scappata, irrompendo nella vita di sua sorella Lauren (Nora-Jane Noone).

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“MICKEY ON THE ROAD” DI MIAN MIAN LU

Rinegoziare le norme di genere costa un viaggio oltremare, quello della Mickey del titolo, in una parabola coming of age post-adolescenziale che sancisce, una volta per tutte, il passaggio all’età adulta. On the road è anche il percorso festivaliero del lungometraggio di debutto di Mian Mian Lu: da Taipei, a Vancouver e infine in concorso per la 38esima edizione del Torino Film Festival.

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“GUNDA” DI VICTOR KOSSAKOVSKY

Dopo Aquarela – il film monito sulla forza e la bellezza dell’acqua presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2018 e selezionato per l’Oscar come Migliore Documentario l’anno successivo –, il regista russo Victor Kossakovsky con Gunda ci mette di fronte a un altro semplice, per quanto non scontato, spunto di riflessione. Ambientato in una fattoria (della quale ben poco si vede se non una casetta di legno e tanta vegetazione), il film ha come protagonisti un gruppo di animali e racconta la loro vita quotidiana.

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“THE DARK AND THE WICKED” DI BRYAN BERTINO

A quattro anni di distanza da The Monster, Bertino scrive e dirige una ghost story intrecciata con il dramma famigliare, personalizzandola con il suo consueto stile asciutto ed esplicito. Il film è stato presentato in anteprima mondiale al Tribeca Film Festival 2020 ed è fuori concorso nella sezione Le stanze di Rol del 38° Torino Film Festival.

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“PINO” DI WALTER FASANO

“Pino” è il titolo del documentario realizzato da Walter Fasano per la storica acquisizione di una delle più significative opere di Pino Pascali da parte del Museo di arte contemporanea a lui dedicato a Polignano a Mare, paese natio dell’artista. Un titolo che in quattro lettere evoca l’anima viva e prorompente di un artista che ha profondamente segnato l’arte del dopoguerra italiano. L’opera in questione, “Cinque bachi da setola e un bozzolo” (1968), da Roma torna finalmente “a casa” nel 2018 in un racconto per immagini fotografiche che si ispira a “La Jetée” di Chris Marker.

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U SLAVU LJUBAVI (IN PRAISE OF LOVE), DI TAMARA DRAKULIĆ

Schermo nero, vento. Poi, un vociare umano, commisto a nitriti. In un polveroso e spartano ippodromo, una corsa di cavalli viene interrotta al suo acme, con un ricorso ad un freeze-frame. A chi spetti la vittoria, non è dato saperlo.

Ecco che U slavu ljubavi (In Praise of Love) ri-comincia per la prima volta. Di nuovo nero, di nuovo rumori ambientali: a sovrastare ogni cosa sono cinguettii e muggiti. La presenza umana, stavolta, non è contemplata nemmeno sul piano sonoro. Dalla natura, incontaminata, si passa ai corpi animali. Lunghe inquadrature statiche, ipnotizzate da deretani equini. Lo sguardo di Drakulić non sembra porsi come un punto di stazione privilegiato rispetto ad altri, ma come uno dei tanti possibili. Il mondo viene lasciato fluire nella sua spontaneità, in ogni suo respiro. Non importa se i soggetti antropomorfici abbandonano il campo. Non è questione di décadrages, o di sovvertire una qualche regola grammaticale. Si tratta piuttosto di non riconoscersi in un’organizzazione gerarchica del materiale audiovisivo. Tutto è ugualmente meritevole di attenzione, e Drakulić è capace di restituirci l’indecidibilità di un punto di vista.

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“THE EVENING HOUR” DI BRADEN KING

Una lenta panoramica accarezza la vastità del paesaggio montano dell’Appalachia; in lontananza una flebile esplosione destabilizza per pochi secondi la pace di quella visione paradisiaca. Tutto tace. Si apre così The Evening Hour, il nuovo lungometraggio di Braden King che, dopo nove anni dal successo di Here (2011), ritorna adattando per il grande schermo l’omonimo romanzo di Carter Sickels. Nella sua nuova opera, King privilegia uno sguardo più realistico sulla vita della periferia americana, depotenziando i classici stilemi narrativi del noir ed instillando, al contempo, una profonda riflessione sul destino di un’intera generazione: giovani disillusi nei confronti di un futuro inesistente, costretti a subire la pressione di un mondo che non concede alcuna via di fuga, se non quella di annegare nell’abisso della droga e della violenza.

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“THE EVENING HOUR” BY BRADEN KING

Article by Luca Giardino

Translated by Carmen Tucci

A slow overview opens onto the mountain landscape of Appalachia; in the distance a feeble explosion destabilizes for a few seconds the peace of that vision of paradise. Everything is quiet. This is how The Evening Hour starts, the new feature film produced by Braden King who, after nine years from Here (2011), comes back adapting for the big screen the Carter Sickel’s novel of the same name. In his new movie, King focuses on the realistic life of American suburb, discouraging the classical stylistic noir narrative elements and instilling a deep reflection about the fate of an entire generation: young people feel disillusioned about a non-existent future, forced to suffer the pressure of a world that doesn’t give escape apart from becoming addicted to drugs and violence. 

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“LAS NIÑAS” BY PILAR PALOMERO

Article by Laura Anania

Translated by Francesca Cozzitorito

Pilar Palomero’s first feature film has two strong points: realism and ease. This combination characterises both the storyline and the overall style, making Las Niñas an emotional and nostalgic film. The protagonist is Celia, an eleven-year-old girl who lives with her young mother in Zaragoza in the early 90s. Her friendship with Brisa, the new girl in town, who rejects religion as a totalising concept, shows Celia a different understanding of reality.

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“LAS NIÑAS” DI PILAR PALOMERO

Il primo lungometraggio di Pilar Palomero ha due punti di forza: realismo e disinvoltura. Un connubio presente tanto nel racconto quanto nello stile, così da rendere Las niñas un film emozionante e in un certo senso nostalgico. Celia, la protagonista, ha undici anni e vive con la giovane madre a Saragozza nei primi anni ’90. La nuova amicizia con Brisa, una ragazza che non accetta la religione come precetto totalizzante, manifesta a Celia una nuova visione della realtà.

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“THE SALT IN OUR WATERS” DI REZWAN SHAHRIAR SUMIT

Rudro (Titas Zia), giovane artista in cerca di ispirazione, decide di lasciare la caotica vita della capitale Dhaka e intraprendere un viaggio in una remota isola di mangrovie sul delta del Bangladesh. Inizialmente accolto dalla piccola comunità locale, un ristretto gruppo di famiglie che si sostenta grazie alla pesca, Rudro si ritrova ben presto frainteso e poi ostracizzato dagli abitanti del villaggio. Questi, guidati dal Messere (Fazlur Rahman Babu), imam e capo locale, guardano prima con sospetto e in seguito con aperta disapprovazione le sue istallazioni così come le sue abitudini.

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“SAN DONATO BEACH” BY FABIO DONATINI

Article by Sirio Alessio Giuliani

Translated by Simona Sucato

“The world goes on but you feel a little further behind”

Patrizia pronounces this sentence looking towards the camera. The sounds of the nearby street are the background to her words. The sun enlights her face and from her eyes transpires the typical melancholia of those who have suffered much, but also the hope of who doesn’t want to surrender. In this photo we can summarize the meaning of San Donato Beach, the new Fabio Donatini’s feature film, in competition at the 38° Torino Film Festival in the section TFFDOC/ Italiana.

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“SAN DONATO BEACH” DI FABIO DONATINI

“Il mondo va avanti ma tu ti senti un po’ più indietro”.

Patrizia pronuncia questa frase fissando l’obiettivo. I rumori della strada vicina fanno da sottofondo alle sue parole. Il sole le illumina il volto e dai suoi occhi traspare la malinconia tipica di chi ha sofferto molto, ma anche la speranza di chi non si vuole arrendere. In questa istantanea si può riassumere il senso di San Donato Beach, il nuovo lungometraggio di Fabio Donatini in concorso al 38° Torino Film Festival nella sezione TFFDOC/ Italiana.

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“I TUFFATORI-the divers” by DANIELE BABBO

Article by Marco Ghironi

Translated by Aurora Sciarrone

The town of Mostar, its divers and a bridge really do split the generations of a community that is trying to forget and move on from war. Competing in the Italiana.doc’s section, Daniele Babbo makes his directorial debut with I Tuffatori – The Divers, quietly moving in the heart of Bosnia, along with the voices and memories of Igor, Denis, Miro, Edy and Goran. Faces and bodies that bewitch tourists with their leaps into the void, and at the same time hide the fear of an unknown future.

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“I TUFFATORI” DI DANIELE BABBO

La città di Mostar, i suoi tuffatori ed un ponte fanno da vero e proprio spartiacque generazionale di una comunità che cerca di andare avanti e dimenticare la guerra. In concorso nella sezione Italiana.doc, Daniele Babbo compie con I Tuffatori il suo esordio alla regia muovendosi silenzioso nel cuore della Bosnia accompagnato dalle voci e dai ricordi di Igor, Denis, Miro, Edy e Goran. Volti e corpi che con i loro salti nel vuoto ammaliano i turisti, mascherando allo stesso tempo le paure di un futuro incerto.

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“OUVERTURES” By THE LIVING AND THE DEAD ENSEMBLE

Article by Angelo Elia

Translated by Valeria Collavini

Every revolution opens the way to unlimited possibilities and presents a challenge to everyone’s ability to imagine a new future, hoping not to be let down. Let’s consider the example of the Haitian Revolution: almost simultaneous to the French one, it was the only slave insurgency that led to the establishment of an independent state, Haiti. The rest of its history is unfortunately known to be less glorious: a long, sad series of misfortunes, dictatorships, and economic and even natural disasters. More than two hundred years later, European directors Louis Henderson and Olivier Marboeuf come together with a group of Haitian actors to reflect upon the legacy of the Haitian Revolution through the story of one of its best-known protagonists, Toussaint Louverture. To tell his story they start from the ending, namely in France.

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“OUVERTURES” DI THE LIVING AND THE DEAD ENSEMBLE

Ogni rivoluzione apre la strada a infinite possibilità e pone a ognuno l’ardua sfida di immaginare un nuovo futuro, sperando di non venire delusi. Si prenda come esempio la rivoluzione haitiana: quasi contemporanea a quella francese, fu l’unica rivolta di schiavi nella Storia a dare vita a uno stato indipendente, Haiti. Il resto della storia, come si sa, è purtroppo meno glorioso: una triste e lunga sequela di miseria, dittature, disastri economici e infine naturali. A più di duecento anni di distanza, i registi europei Louis Henderson e Olivier Marboeuf si uniscono ad alcuni attori haitiani per cercare di riflettere sull’eredità della rivoluzione haitiana attraverso la storia di uno dei suoi più celebri protagonisti, Toussaint Louverture. E raccontano questa storia partendo dalla fine, cioè dalla Francia.

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L’ESPERIENZA DI VENEZIA 77

Dal 2 al 12 settembre la 77^ Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia si è svolta in presenza, sfidando la paura del contagio da Nuovo Coronavirus, non ancora debellato in Italia. L’organizzazione della Biennale ha avuto diversi mesi per valutare tutti i problemi legati a un evento così grande e ha deciso di inaugurarlo con nuove regole che permettessero il suo svolgimento dal vivo. Queste regole pare siano state efficaci, perché ancora non sono stati riscontrati casi di contagio legati direttamente alla Mostra del Cinema. 

Naturalmente molti ospiti provenienti da paesi a rischio non hanno potuto partecipare al festival veneziano e il numero di partecipanti è stato ridotto per contenere al minimo gli affollamenti. Sono stati 5.500 gli accreditati, 1300 i giornalisti (850 italiani e 450 stranieri), con un complessivo calo del 40% rispetto al 2019. Il totale degli ingressi nei 10 giorni di festival è di 92.000, -66% rispetto all’anno precedente in cui erano stati 154.000. Ogni sala poteva contenere al massimo la metà delle persone previste per la capienza massima, ma le platee parevano ancora più spoglie, rendendo percepibile all’occhio il calo di pubblico. Il festival ha dovuto inoltre investire 2 milioni in più rispetto al budget previsto di 12 milioni, per permettere l’approntamento di tutte le norme di sicurezza. Dispenser di gel disinfettante in ogni angolo, misuratori della temperatura automatici all’ingresso dell’area della Mostra, personale dispiegato per la pulizia, il controllo degli accessi, per sorvegliare il metro di distanza e la mascherina sul volto in tutte le aree della mostra, dal bar fino alla sala, dove doveva essere indossata per l’intera durata della proiezione. Pur nel rispetto di questi protocolli si sono create comunque situazioni di affollamento, specialmente su autobus e vaporetti. E sebbene il red carpet fosse occultato da un alto pannello, in diverse occasioni i curiosi hanno cercato di sbirciare la passerella dei divi dai piccoli spazi tra una transenna e l’altra. 

In definitiva il rispetto delle norme di sicurezza alla Mostra è rimasto in mano ai singoli spettatori, che hanno deciso come e quanto attenersi alle regole, sotto lo sguardo attento delle maschere che, oltre a vigilare contro la pirateria, hanno dovuto aguzzare la vista per richiamare all’ordine chi esponeva il naso durante le proiezioni. 

In definitiva però, di questa edizione segnata dal Covid-19, l’attenzione si è subito spostata sui film. A un primo sguardo generale sul programma si poteva pensare che questa edizione sarebbe stata contrassegnata da film sperimentali, autori meno noti che avrebbero presentato lavori meno canonici, dato anche il periodo critico in cui questi film sono stati completati. A guardare invece i premi assegnati possiamo invece affermare il contrario. Venezia ha mantenuto una linea che guarda al mercato. A cominciare da Nomadland, ottimo film di Chloé Zhao, regista cinese naturalizzata statunitense e ora impegnata nell’ultima produzione Marvel, fino al disturbante Nuove Orden, produzione messicana che punta su una rappresentazione fumettistica della violenza, senza però riuscire a coinvolgere lo spettatore in una vera riflessione sull’ingiustizia sociale, e che pare nato pronto per la diffusione su Netflix. Film validi, come Pieces of a Woman insignito con la Coppa Volpi per la miglior attrice a Vanessa Kirby; film che effettivamente rappresentano un festival in cui l’originalità è comparsa ai margini, nei film minori e meno visti, mentre il concorso vedeva competere film semplici, rotondi, completi, perfetti magari, ma che aggiungono poco o nulla alla ricerca sul linguaggio del cinema contemporaneo. Ci sono però le dovute eccezioni: Never Gonna Snow Again di Małgorzata Szumowska e Michał Englerte e In Between Dying di Hilal Baydorov sono stati i titoli più atipici e articolati del concorso e che, pur facendo riferimento a filmografie e autori precedenti, danno un loro contributo a un discorso sul cinema come luogo di riflessione, di sospensione e anche di morte, un luogo dove una società contrassegnata da violenza e mutamenti incontrovertibili si ritira fino a scomparire. 

Per quel che riguarda i film italiani, presenti numerosi in tutte le sezioni della Mostra, pochi  hanno ottenuto un riconoscimento ufficiale: il Leone per la Miglior Sceneggiatura della sezione Orizzonti è andato a Sergio Castellitto con il suo esordio I predatori, mentre Pierfrancesco Favino ha vinto la Coppa Volpi come Miglior Attore in Padrenostro di Claudio Noce. Questi e molti altri titoli italiani saranno presto in sala, per rilanciare i settori della distribuzione e dell’esercizio pesantemente penalizzati dai mesi di lockdown e successivamente dal periodo estivo. 

Vedremo se il pubblico li accoglierà con un calore diverso da quello ricevuto a Venezia, nella speranza di una nuova annata in cui la ripartenza di progetti e produzioni porterà a nuove opere italiane di rilievo.