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“APOLLO 10 1⁄2: A SPACE AGE CHILDHOOD” DI RICHARD LINKLATER

“Beh, sai come funziona la memoria. Anche se dormiva, un giorno crederà di avere visto tutto.”

Per raccontare la sua infanzia, come quella di tutti gli altri ragazzi nati a Houston e dintorni negli anni ‘60, Richard Linklater torna ad avvalersi dell’animazione in rotoscopio ben sedici anni dopo A Scanner Darkly – Un oscuro scrutare (A Scanner Darkly, 2006). Se in quell’occasione la tecnica gli forniva la possibilità di avvicinarsi allo sfumato universo dickiano, fatto di fantasia e immaginazione ma anche, più pragmaticamente, di paranoia e droga, in Apollo 10 e mezzo (Apollo 10 1/2: A Space Age Adventure, 2022) si tratta invece di una scelta che si rivela la maniera più immediata per far coesistere le due anime del film: da una parte la ricostruzione puntuale ed esaustiva della vita americana alla fine degli anni ’60, dall’altra la fantascientifica avventura del piccolo Stan.

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“DON’T LOOK UP” DI ADAM MCKAY

In sala per poche settimane e a Natale su Netflix, Don’t Look Up è una commedia divertente ma disillusa, sorretta da interpreti d’eccezione e capace di ibridare il cinema impegnato con quello di puro intrattenimento.


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TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLO STREAMING (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)

Nel lontano 2015, quando Amazon stava iniziando a metabolizzare il fatto di “produrre e distribuire film”, Netflix, con Beasts of No Nation, in concorso a Venezia, si confermava l’indesiderato disgregatore dell’industria cinematografica. I servizi streaming non erano più solo un’idea abbozzata di ciò che il futuro avrebbe potuto riservare: in pochissimi anni, hanno rappresentato – e rappresentano tutt’ora – un’enorme quantità di denaro investita per l’acquisto di spettacoli, film di successo e produzione di titoli originali. E poiché le statistiche che stanno dietro a tutto questo sono praticamente sconosciute, quanto (e come) gli abbonati si convertano in termini di fatturato rimane un mistero. 

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“HOLLYWOOD” di Ryan Murphy

Partiamo dal presupposto che Ryan Murphy non sa stare con le mani in mano: è dal 1999 che su qualche canale TV – e ora sulle piattaforme on demand – è possibile imbattersi in una delle tante serie che ha prodotto. L’hai trovato per caso nello zapping da seconda serata con Nip /Tuck e hai spulciato i siti di streaming pirata per scoprire i retroscena della faida tra Bette Davis e Joan Crawford; l’hai maledetto quando non riuscivi a dormire dopo una puntata di American Horror Story e hai cercato conforto nelle canzonette in playback del Glee club. E così continuerà a essere, perché nel 2018 ha firmato un accordo da trecento milioni con Netflix che lo lega alla piattaforma per cinque anni. 

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